Obama, i costi del cambio

In atto un duro confronto con le corporazioni più potenti.
Barack Obama

Per fortuna Obama non ha ascoltato i consigli (non certo disinteressati) di quanti gli consigliavano di trasformare il discorso sullo “stato dell’Unione” di gennaio in un discorso sullo “stato di guerra”. E cioè cavalcare, come alcuni suoi predecessori, l’ondata emotiva di un’America che si è riscoperta insicura dopo il fallito attentato di Natale su un aereo diretto a Detroit. Un anno dopo il suo insediamento, Obama si concentra sul “brodo di coltura” delle paure indefinite, e cioè la crisi economica e occupazionale che ha colpito soprattutto la classe media americana.

 

Ma questa scelta comporta un duro confronto con le corporazioni più potenti. Quella dei gruppi finanziari di Wall Street, che non vogliono saperne di rispettare regole rigorose e di rendere più “etici” e misurati i loro guadagni. Quella delle grandi compagnie di assicurazione, che si oppongono al progetto di assistenza sanitaria, che mira a dare copertura medica a circa 40 milioni di cittadini americani che ne sono sprovvisti. In America non funziona l’espediente di imputare alla crisi economica globale le cause di condizioni sociali allarmanti, con un tasso di disoccupazione stabilmente al di sopra del 10 per cento. In America chi è al governo deve rispondere di quanto accade “sotto il suo sguardo”.

 

Questa è la ragione principale del calo di consensi di Obama (ora intorno al 50 per cento rispetto all’avvio trionfale). E il fatto che la sconfitta elettorale dei democratici nelle elezioni senatoriali del seggio che fu di Ted Kennedy in Massachusetts costringa il partito dell’asinello a negoziare di più e meglio con l’opposizione repubblicana non è necessariamente un male per Obama. Può implicare un maggior controllo sulla spesa pubblica, che ha raggiunto livelli astronomici, e una maggior considerazione delle ragioni di chi rivendica l’autonomia degli Stati rispetto all’espansione del governo federale (la fobia del big government). In una parola, a rendere più equilibrata e fruttuosa la spinta innovativa di Obama per un “cambiamento” appena avviato. In patria e fuori.

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