Normali eppure speciali

Per tanti giovani, anche senza averli conosciuti, Alberto Michelotti e Carlo Grisolia sono diventati compagni di viaggio ed esempi da seguire.
Normali eppure speciali

 Tra i tanti gruppi giovanili sorti a metà degli anni Settanta c’è anche quello di Alberto Michelotti e Carlo Grisolia, genovesi entrambi sui vent’anni, studenti. Alberto è appassionato di montagna. Morirà nell’agosto dell’80 in un canalone di ghiaccio sulle Alpi Marittime. A Carlo invece piace la letteratura, scrivere poesie e canzoni: muore quaranta giorni dopo in ospedale, stroncato da un male terribile.

Due morti di giovani come le tante che ci raccontano le cronache quotidiane. Ma Alberto e Carlo, a quasi trent’anni di distanza, continuano a far parlare di sé, tanto che per loro la Chiesa genovese ha avviato il processo diocesano della causa di beatificazione e di canonizzazione. Servi di Dio, ora vengono chiamati così: per i ventenni di oggi, è una definizione che sa di clericale e allontana non poco. Invece, per loro succede il contrario. Un segreto c’è, anzi più di uno, ma quello che appare più evidente è stato l’aver saputo sempre coinvolgere e condividere nelle loro scelte di vita chi avevano accanto.

L’amicizia tra loro, pur con personalità diverse, era fondata sull’insegnamento ricevuto da Chiara Lubich, che raccomandava di «farsi santi insieme». Cercare di mettere Dio al centro della loro giornata per poter fare ogni piccola cosa per lui – e così farsi santi – era il loro allenamento quotidiano.

«Alberto e Carlo hanno imparato ad amare come insegna Gesù con la sua vita, con le sue parole e hanno fatto solo questo. E dici poco?». La frase l’ho colta da un discorso già avviato tra un gruppetto di giovani. «Gioisco in particolare nel vedere che l’esame canonico procede insieme, così come insieme hanno speso la loro giovinezza, con esemplare generosità. In diverse occasioni li ho citati come esempi da seguire». Così ha scritto il segretario di Stato vaticano, card. Tarcisio Bertone, nella lettera ai familiari per l’apertura del processo diocesano.

Santi insieme: si può fare. Ce lo stanno dimostrando e la Chiesa ha visto in loro questa specifica volontà: aiutarsi reciprocamente in questo cammino.

 

Claudio, di una parrocchia di Genova, ha partecipato a un campo scuola estivo per animatori. Filo conduttore: conoscere meglio la vita e il messaggio di Alberto e Carlo. «Argomento che trattiamo di sera, tutti in cerchio, leggendo passi del loro libro e ascoltando testimonianze registrate, esprimendo le nostre opinioni. Non li abbiamo conosciuti, ma è come averli lì che ci comunicano le proprie esperienze – racconta Claudio –. Parlando di loro due, avverto la possibilità di andare oltre la vita e la morte, di dare un senso ai miei giorni nell’umile servizio verso gli altri, di essere sempre pronto a non sprecare il mio tempo, di far scaturire amore dal dolore, di trovare l’eccezionale nella quotidianità.

«Alberto e Carlo, a fine campo, li sentiamo compagni di viaggio nel cammino che stiamo percorrendo. Tra noi vivere insieme significa aiutare gli altri e qualsiasi cosa consolida il nostro legame, accresce la complicità e il nostro “fare gruppo”».

«Non li ho conosciuti di persona – interviene Silvia, studentessa di Macerata –, ma leggendo il libro sulla loro vita, mi ha colpito il modo in cui intendevano il rapporto di amicizia tra loro. Cioè non un’amicizia superficiale, ma un modo per aiutarsi l’un l’altro ad andare verso Dio, a fare ognuno la propria strada ma insieme, cercando con grande radicalità di amare Gesù che si presenta nei dolori e mettendosi sempre in discussione. Tutto questo mi ha spinto a rivedere la mia vita, il mio modo di gestire il tempo, gli impegni e soprattutto il rapporto con gli altri, con la consapevolezza che è importante, a costo di qualche sacrificio, mettercela tutta, affidandomi a Dio».

«Pensando ad Alberto e Carlo – le fa eco Sara –, rimango colpita da come le loro esistenze fossero caratterizzate dal procedere insieme, cercando di vivere il Vangelo insieme, nel quotidiano incontro con ogni prossimo. Prima di conoscere la loro storia, non pensavo di poter dare del “tu” a due persone per le quali è aperto il processo di canonizzazione, tanto meno pensavo di potermi confrontare o essere capita. Leggendo il libro sulla loro vita e ascoltando le testimonianze di chi è stato loro amico, li ho sentiti vicini e ho capito quanto la mia vita potrebbe essere più vicina alla loro, se solo lasciassi a Dio prendere tutta l’importanza che gli è dovuta». 

Per Simone, ventenne, impiegato di Genova, Alberto e Carlo sono modelli a cui riferirsi «perché, aiutandosi, hanno seguito Gesù, senza essere “diversi” da tanti altri. Mi danno la speranza di poter sempre ricominciare, di poter anch’io, vivendo come loro, puntare alla santità. Il loro modo di essere è ancora impresso nelle persone che li hanno conosciuti; sono partiti per il cielo, ma ancora molto parla di loro e anch’io, senza averli conosciuti, sento che posso puntare e vivere in pienezza la vita per poi alla fine potermi tuffare in Dio».

 

Marco, ora cinquantenne, era nel gruppo con Alberto: «Avevamo poco più di vent’anni, e una grande voglia di vivere. Alberto l’avevo conosciuto per caso: avevo bisogno di una tenda per una vacanza e lui me l’ha prestata senza nemmeno conoscermi. La tenda poi mi è stata rubata, ma da quell’incontro è nata la nostra amicizia. Un’amicizia normale, ma profonda: ci aiutavamo a vivere costantemente il Vangelo, tanto che ogni cosa prendeva un sapore particolare, sembrava più importante.

«Sono passati trent’anni da allora, ma Alberto è sempre qui; certo, mi manca la sua presenza fisica, mi mancano le pazzie che facevamo per incontrarci, ma quel rapporto che abbiamo costruito cercando di vivere per Dio ha vinto il tempo. Mi ha colpito molto, durante la cerimonia di apertura del processo di beatificazione, sentire parlare così profondamente di Alberto da parte di tante personalità della Chiesa; non se lo sarebbe mai aspettato, vivendo la vita nella sua semplicità, di suscitare un’eco così vasta».

Nella basilica genovese di Santa Maria Immacolata gremita di un pubblico di tutte le età, venuta per l’apertura del processo diocesano, c’era una signora commossa che seguiva il rito. Era Rosanna, l’infermiera che assistette Carlo nella rianimazione dell’ospedale. «Non potevo non essere qui oggi».

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