“Non hanno più vino”. Una lettura del rapporto tra i carismi e le loro opere

L’articolo è una rielaborazione dell’intervento tenuto al seminario “Economia, gestione e carismi” (2009), al quale hanno partecipato religiose e religiosi di 12 congregazioni, studiosi e diverse realtà dell’Economia di comunione.
Nozze di Cana (Centro Aletti) particolare

Ecco la grande attrattiva

del tempo moderno;

penetrare nella più alta contemplazione

e rimanere mescolati fra tutti,

uomo accanto a uomo.

Vorrei dire di più: perdersi nella folla,

per informarla del divino, come s’inzuppa

un frusto di pane nel vino.

Vorrei dire di più:

fatti partecipi dei disegni di Dio

sull’umanità,

segnare sulla folla ricami di luce

e, nel contempo, dividere col prossimo

l’onta, la fama, le percosse, le brevi gioie.

(Chiara Lubich).

 

In questo breve saggio vorrei descrivere l’evoluzione del rapporto tra un’istituzione carismatica e le proprie opere sulla linea della cosiddetta Via Mariae, com’è stata intuita da Chiara Lubich. Emergono così alcune indicazioni, anche operative, che possono risultare di una qualche utilità nel momento storico che oggi vivono tante congregazioni religiose.

 

Economia e carismi

 

Questo scritto nasce dalla convinzione, esperienziale e teorica, che anche la vita economica e civile possa e debba essere letta come un dialogo tra “carisma” e “istituzione”. Qualcosa di questa dialettica ce l’ha svelata Max Weber con i suoi studi sull’autorità carismatica. Von Balthasar è andato ancora oltre, quando a più riprese ci ha parlato nei suoi lavori teologici del “profilo mariano” della Chiesa, e del suo rapporto con gli altri profili, tra cui, in particolare, quello “petrino”.

 

Studiando questi testi, e osservando la vita dentro e fuori i mercati, sono giunto alla convinzione che leggere la vita economica come un dialogo tra carisma e istituzione o tra profilo “mariano” e profilo “petrino” consente di cogliere aspetti originali nella vita di queste realtà, e di capire dimensioni della vita economica che altrimenti restano troppo sullo sfondo della storia e della prassi[1]. In questa nota leggeremo il cammino di un’opera che nasce da un carisma dalla prospettiva carismatica, o mariana; ci metteremo quindi dalla parte di Maria, che è l’icona o l’archetipo di ogni carisma.

 

Le nozze di Cana

 

L’episodio delle nozze di Cana è l’immagine più eloquente di Maria come icona del principio carismatico nella storia: Maria che durante la festa di nozze per prima si accorge che i commensali “non hanno più vino” (Gv 2, 3). Questo episodio mariano ci dice alcune cose fondamentali della logica carismatica nella storia, che servono da sfondo al discorso che stiamo per iniziare.

In primo luogo, i carismi vedono più lontano, in particolare vedono cose diverse che altri (discepoli, amici, istituzioni…) non vedono. Il carisma è, infatti, un dono di occhi diversi che sanno vedere opportunità e cose belle dove gli altri vedono problemi[2].

 

Poi, per soddisfare il bisogno, perché il “vino” arrivi effettivamente ai commensali, occorre attivare tutte le varie componenti della casa (non basta Maria): è necessaria un’alleanza con le altre componenti della vita in comune, che oggi si chiamano “laici”, mercato e politica.

I carismi sono stati e sono ancora oggi i luoghi delle grandi “innovazioni” umane: l’umanità, non solo la Chiesa, procede grazie ad una continua staffetta tra innovatori (i carismatici) e le istituzioni che universalizzano quelle innovazioni.

 

Il carisma è dato alle persone. Le prime persone che ricevono il carisma sono i fondatori di comunità e di movimenti, ma anche i seguaci e coloro che vivono all’interno di movimenti carismatici ricevono una chiamata personale e diretta: non sono semplicemente imitatori del fondatore, ma persone che sono portatori originali dello stesso carisma del fondatore.

In altre parole, ogni carisma, soprattutto i “grandi”, è spesso un “grappolo” di carismi. Chi vive un’esperienza carismatica va avanti e continua a rendere vivo il carisma del fondatore, perché ha ricevuto una vocazione personale.

 

Da qui deriva il corollario che sono sempre le persone con dentro il carisma che fanno diventare carismatiche le istituzioni, e non viceversa (come invece può accadere con il profilo istituzionale della Chiesa e della società), anche se poi una volta create le istituzioni a loro volta formano le persone. Nei carismi si vede pienamente all’opera il significato del principio personalista e del primato della persona sulle strutture.

 

L’opera carismatica come cammino

 

In questo scritto provo a compiere un esperimento, e a immaginare che le opere carismatiche, espressioni concrete dell’azione nella storia del profilo mariano (della Chiesa e della società civile), abbiano uno sviluppo storico che ripete, in qualche modo, le tappe della vita di Maria, la cosiddetta Via Mariae.

 

Leggere lo sviluppo della vita del cristiano come un rivivere le tappe della vita di Maria, è una delle più belle e originali intuizioni di Chiara Lubich. Lei ne ha parlato molte volte, e la Via Mariae rappresenta una delle pietre miliari della spiritualità del Movimento dei Focolari[3]. Ovviamente l’analogia tra la vita del cristiano (in particolare del membro dell’Opera di Maria) e quella della Madre di Gesù è una lettura idealtipica, che però ha ispirato la vita concreta di tante persone.

 

In questo scritto cerco di estendere l’analogia dalla singola persona alle opere che nascono dai carismi, poiché credo che una tale lettura possa offrire alcuni spunti significativi per la comprensione della natura delle opere carismatiche, e quindi per la loro gestione anche economica. Il mio focus è essenzialmente sui carismi cristiani (anche se credo il discorso potrebbe avere una portata ancora più generale, ma sarebbe necessario molto più lavoro).

 

Due precauzioni metodologiche

 

Innanzitutto, la Via Mariae è un discorso che Chiara Lubich ha sviluppato pensando al cammino delle persone che si mettono in un percorso evangelico. Il discorso che qui stiamo iniziando è riferito invece a delle istituzioni, a delle opere: il grado di mediazione richiesto è quindi maggiore, soprattutto se si vuole utilizzare il discorso idealtipico per interpretare situazioni concrete, e magari proporre delle soluzioni operative. Nonostante tale avvertenza, credo che metodologicamente sia possibile estendere il ragionamento e l’intuizione di Chiara alla dinamica storica di opere carismatiche.

 

In secondo luogo, le considerazioni che ci apprestiamo a fare sono riferite alle opere dei carismi, non al carisma stesso, anche se evidentemente tra le due realtà esistono rapporti molto stretti. Un carisma è comunque sempre più grande delle sue opere, anche quando queste sono parte integrante del carisma (si pensi alle opere educative per don Bosco, ad esempio)[4]. Per questo parleremo anche del rapporto tra le opere carismatiche e le persone che le fanno nascere e le portano avanti.

 

Prima tappa: l’annuncio

 

Ogni opera carismatica nasce normalmente da un annuncio, da un “incontro” con un “angelo”: da un incontro del fondatore (o di altri membri) con una persona che svolge la stessa funzione di messaggero dell’angelo del Vangelo di Luca. Altre (rare) volte, l’opera nasce da un’ispirazione in solitudine, ma normalmente è l’incontro con altri uomini e donne da cui nasce la prima ispirazione dell’opera. Viene annunciata qualcosa che:

 

– non è quasi mai nei piani di chi riceve l’annuncio (il fondatore o altri) e per questo gli cambia i piani di vita, gli scompagina i programmi (“non conosco uomo”);

 

– è l’annuncio della gratuità: “Ave piena di charis”, Ave piena di gratuità. L’opera non nasce da ragioni strumentali, sebbene sante (come diffondere il carisma, aumentare le vocazioni…), ma da una vocazione, da una chiamata interiore, quindi da gratuità;

 

– non si sa dove porterà quella chiamata: tipico dell’opera carismatica è il non sapere “che cosa si sta facendo”, poiché il progetto lo si capisce, lo si scopre, si ri-vela vivendolo. Una prima implicazione operativa per le opere: bisogna stare attenti agli esperti e ai consulenti che vorrebbero, e debbono, applicare “ricette” che funzionano in tutti i differenti contesti, perché ogni carisma ha una sua unicità e una natura di mistero che si rivela vivendo.

 

Seconda tappa: la perdita

 

All’annuncio seguono anni di crescita in “età sapienza e grazia”: l’opera matura, e matura in sapienza e nell’esperienza della gratuità, sebbene sempre accompagnata dai primi dolori e prove (si pensi all’annuncio del vecchio Simeone: “E anche a te una spada…”).

A un certo punto, però, si verifica un evento importante, una prima crisi che nella vita di Maria possiamo ritrovare simboleggiata dell’esperienza fatta in seguito alla perdita di Gesù nel tempio, quando il ragazzo Gesù, una volta ritrovato dai genitori, dice loro: “Non sapevate che io devo compiere le opere del Padre mio?”.

Che cosa ci può dire questo episodio? È questo il momento, che prima o poi arriva in tutte le realtà carismatiche, quando chi ha fondato un’opera si rende conto che l’opera non è “proprietà” sua, non è cioè una realtà che gli appartiene.

 

È un’esperienza analoga a quella che si vive nel rapporto genitori-figlio, quando ad un certo punto i genitori debbono capire, con dolore, (e se non lo capiscono comportandosi di conseguenza si avranno nel tempo gravi patologie, come il narcisismo) che il figlio non è per loro e loro non sono proprietà del figlio, ma che lui o lei ha una sua vocazione specifica e unica da realizzare. Il ragazzo deve fare un passo nei confronti della famiglia (della madre in particolare), e i genitori debbono aiutarlo a capire che la famiglia è solo il punto di partenza per donarsi nel mondo, e non un suo “bene” privato da consumare. È un taglio tanto doloroso, quanto decisivo per la crescita.

 

Nelle realtà carismatiche quando l’opera inizia a portare frutto, ad essere stimata, a funzionare bene, arriva un momento in cui chi ha dato vita a quell’opera si innamora di essa, in un certo senso s’identifica con l’opera stessa. Non si è più capaci di distinguere tra il “dono” (carisma) che era per gli altri (Chiesa e umanità) e la realtà che ha accolto e custodito quel dono: viene così messa alla prova proprio la gratuità, il cuore di ogni esperienza carismatica, la charis. Questo momento o tappa può assumere diverse forme. Ne indico alcune possibili:

 

a) per varie ragioni (età dei fondatori, assenza di vocazioni…) arrivano altri (i “laici” ad esempio) a gestire l’opera, e chi l’ha fondata sperimenta in questo distacco una certa morte;

 

b) chi ha fondato un’opera inizia a reclamare più autonomia nei confronti dell’Istituto da cui è nata. In questo caso, tipico dei secondi tempi dei movimenti carismatici, la crisi la vive chi ha la responsabilità istituzionale e deve gestire queste richieste di autonomia e libertà[5];

 

c) “tentazioni” che vorrebbero far restare l’opera un “bonsai”, non “far uscire il ragazzo di casa”, e farla così restare un albero grazioso che però non cresce e quindi non porta i tipici frutti “maturi” del carisma e delle sue opere.

 

Se si supera questa seconda tappa (ogni tappa può non essere superata e può così bloccarsi il cammino dell’opera carismatica), inizia allora una lunga stagione, la più lunga nella vita di Maria, quando l’opera decolla, prende le ali: iniziano i miracoli grandi, le conversioni, i frutti copiosi.

Però iniziano anche le persecuzioni, le grandi prove (calunnie, maldicenze, denunce…). Sono gli anni (secoli a volte!) dove l’opera canta le beatitudini con la vita, e le canta tante volte, e in varie tonalità. Non finisce però qui la Via Mariae dell’opera carismatica.

 

Terza tappa: la “desolata”

 

Se si superano le prime due tappe si approda a una terza fase, quella cruciale, da cui dipende veramente la fioritura piena della vocazione di un’opera carismatica. È la desolata, la prova più grande di Maria. È questo il momento della morte vera dell’opera. Prima c’era stata una certa morte (il distacco), ma ora si muore veramente. A questo punto arrivano le grandi tentazioni delle opere carismatiche. Si avverte (per un istinto carismatico) che ci sta avvicinando ad una crisi nuova, che prelude a una certa morte, ma invece di morire carismaticamente (nel senso che dirò tra breve), si tentano delle vie di fuga. Alcune di queste vie di fuga sono le seguenti:

 

1. la svendita totale: si svendono le opere ai migliori offerenti, senza un progetto carismatico globale, ma per “tappare” i buchi dei bilanci e per cercare di sopravvivere. La comunità carismatica non riesce più a gestire l’opera e, senza una vera analisi profonda per capire carismaticamente che cosa fare, si cerca di disfarsi dell’opera il più presto possibile;

 

2. la ritirata dal carisma: si “delegano” ai dipendenti “laici” i lavori più ordinari che spesso – e qui sta il punto – erano proprio lo specifico del carisma: le corsie degli ospedali, i banchi di scuola, le baracche, …). In certi casi molti consulenti consigliano ai membri dell’opera carismatica di occuparsi solo dei compiti di responsabilità, trasformandosi in managers allo scopo di “salvare” le opere e non farle così “morire”;

 

3. “forte apache”: non si delega a nessuno, non si chiude nessuna opera, ma si resiste fino all’ultima unità… e si muore di morte gloriosa.

 

Questi tre tipi di morte non sono, normalmente, morti carismatiche (ne abbiamo qualche esperienza), ma sono morti e basta, come accadde a donna Prassede in seguito alla peste: “Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, èdetto tutto”[6].

Che cosa vuol dire morire carismaticamente? Non lo so con chiarezza. Mi limito solo ad accennare alcuni elementi e intuizioni che vorrei proporre con umiltà come inizio di una riflessione da sviluppare a più livelli. Tale riflessione si sta però rivelando in questi anni quanto mai cruciale per il presente e il futuro di molte opere carismatiche, una sfida dalla quale dipende molto della qualità della vita delle istituzioni religiose e delle persone che vivono in queste nel prossimo futuro.

 

Innanzitutto è essenziale saper discernere, comunitariamente e a più livelli (coinvolgendo nel discernimento tutte le persone giuste, senza cadere nella tentazione di decidere saltando qualche livello o qualche persona, per difficoltà relazionali ad esempio), se quella che si sta vivendo è “l’ora” giusta per morire (carismaticamente), se cioè l’opera sta “morendo” perché ha raggiunto il suo compimento, oppure semplicemente per errori nostri (tecnici, sapienzali, di disunità, consulenti sbagliati…). In questo secondo caso bisogna combattere contro questa morte.

 

Una volta che si è capito, assieme e con il giusto discernimento, che una data opera deve morire, se vogliamo essere fedeli al carisma quell’opera non può morire… e basta: occorre far di tutto per cercare e trovare il senso carismatico di quella morte, occorre cioè intravedere una resurrezione oltre la morte dell’opera. Se non si intravede almeno la possibilità di una risurrezione, è molto probabile che questo sia un segno che non si sta morendo carismaticamente, secondo la vocazione specifica di quell’opera. Ma si sta morendo… e basta.

 

Capire, infine, che la “morte” carismatica di un’opera deve essere anche l’inizio di una nuova “figliolanza”: “Donna ecco tuo figlio”, ecco Giovanni. Tutta la difficoltà di questa morte carismatica sta nel riconoscere e trovare “Giovanni”, una nuova continuazione, diversa, ma non meno carismatica, della vocazione dell’opera.

Si può allora comprendere che, quando si è capaci di vivere così la tappa della desolata, ciò che sembrava morte, e in un certo senso lo era, era in realtà solo l’alba della resurrezione.

 

Quarta tappa: Maria dopo la resurrezione

 

La vita terrena di Maria continua dopo la resurrezione di Gesù, nella Chiesa nascente. Che cosa vuol dire questo per il nostro discorso? Anche qui mi limito soltanto ad alcune suggestioni.

Innanzitutto, la resurrezione di Gesù non è quella di Lazzaro, il quale dopo qualche anno morì di nuovo: non si tratta allora di “rianimare” la “vecchia” opera, ma di saper intravvedere una realtà nuova che è al tempo stesso in continuità e in discontinuità con la prima opera.

In secondo luogo, alla luce del Vangelo e della Via Mariae, occorre tener presente che un’opera realizza pienamente il suo disegno quando muore per diventare qualcos’altro, un “qualcosa’altro” che ha la natura dell’opera originaria, ma che è stata capace di trascendersi e sublimarsi in un “oltre”.

 

Qui ci vuole molta sapienza e discernimento comunitario per saper morir bene e quindi possibilmente risorgere. Occorre, ad esempio, far in modo che, nel caso in cui si voglia cedere per mancanza di forze una casa, un ospedale, una scuola, si individui tra le varie proposte quella che dà senso carismatico all’intera storia dell’opera, che potrebbe essere una resurrezione, cioè una universalizzazione dell’opera, sebbene misteriosa.

 

Quindi occorre fare molta attenzione a queste fasi: una vendita di un’opera potrebbe essere una “morte e basta” (quando la si cede a un’azienda che la trasforma in un agriturismo), oppure potrebbe rivelarsi una morte-resurrezione.

Ad esempio: se una nuova comunità impegnata con i senza fissa dimora prende una casa che una comunità di religiose non riesce più a portare avanti, questa potrebbe essere una resurrezione di un’opera, nata da un carisma per i poveri.

 

Oppure pensiamo a un istituto religioso che chiude una casa, ma per rafforzare e sostenerne altre e far ripartire da lì il “miracolo” del carisma originario.

A volte, infine, bisogna anche saper accettare di “morire e basta”, se non ci sono le condizioni. Però dovremmo almeno esserne coscienti e cercare, almeno una volta nella vita nostra e delle nostre comunità, di “morire carismaticamente”.

 

Invece di concludere

 

Se quanto detto finora è plausibile, allora bisogna guardare con sguardo tutto nuovo al declino delle vocazioni (quando c’è), e la conseguente “chiusura” delle opere: una realtà carismatica raggiunge il suo disegno sotto una croce. Occorre imparare a leggere la storia ed evitare quel pessimismo (sebbene comprensibilissimo) che a volte si sente nelle nostre realtà. Se si muore carismaticamente la morte è culmine di un processo maturo, non fallimento: è luce aurorale, non ombre di tramonto.

Però, affinché questo “ottimismo” sia serio e responsabile, occorre leggere la storia anche dalla prospettiva dei carismi e della loro logica, occorre mettersi dalla parte di Maria, l’icona di ogni carisma. E sperare così di riempire ancora le nostre istituzioni e opere carismatiche di quella gioia vera che è sempre il segno di ogni carisma.

 



[1] Del “profilo carismatico” dell’economia mi sono occupato in un libro scritto assieme ad Alessandra Smerilli, Benedetta economia (Città Nuova, Roma 2008). Ringrazio Pasquale Ferrara che per primo (a mia conoscenza) ha applicato l’episodio delle Nozze di Cana alla vita politica e civile.

[2] Sul tema dei carismi nella Chiesa molto si è scritto, data la sua complessità e ricchezza sotto diversi profili (antropologico, teologico, storico…). Il riferimento ineludibile è senz’altro la prima lettera di Paolo ai Corinzi, nella quale troviamo una chiara teologia dei doni (charismata) nella comunità ecclesiale, e della loro funzione in vista non tanto della salvezza individuali di chi li riceve, ma del bene comune, del corpo ecclesiale. Per comprendere appieno i carismi, credo sia necessario (in linea, ad esempio, con la Lumen Gentium del Concilio Vaticano II) leggere tali realtà come doni speciali di natura e dimensioni diverse rispetto ai doni-carismi di tipo paolino. Considero più efficace la lettura balthasariana che legge la dinamica della Chiesa nel suo sviluppo storico come un dialogo tra diversi profili o principi, che possono essere sintentizzati nel profilo carismatico (o mariano) e quello istituzionale. Ad ogni modo sarà questa l’accezione di carisma che userò nel presente scritto.

[3] Uno degli ultimi interventi ufficiali nei quali Chiara ha parlato e descritto la Via Mariae è stato durante il Congresso Mariano svoltosi a Castel Gandolfo nel maggio del 2003: l’intervento è stampato nel volume Maria trasparenza di Dio (Città Nuova 2003) e sul sito internet: http://www.loppiano.it/ore-roma.pdf.

[4] Inoltre, in quanto segue non tratterò tutte le tappe delineate da Chiara (non parlerò della “visita di Maria a Elisabetta”, né della “presentazione al tempio”, né della “nascita di Gesù”, sebbene ci siano dei riferimenti nel mio discorso ad alcuni di queste tappe), per soffermarmi solo su quei momenti che considero particolarmente significativi nella dinamica storica di un’opera carismatica.

[5] Ciò ci dà lo spunto per sottolineare il fatto che anche in un’opera carismatica esiste una dialogo tra carisma (innovazione, riforma) e istituzione (gerarchia e ordine).

[6] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXVII.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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