Non buonisti, ma “benisti”

La questione della nave Aquarius, con il suo carico di vite umane, invita a fare una differenza tra il buonismo, che è una virtù privata, e il "benismo", che è un atteggiamento di promozione del bene comune in un'ottica di medio e lungo periodo, che mira al miglioramento sociale.

C’è molta confusione, e parecchia acrimonia sotto il cielo (e nei mari) d’Italia. La vicenda della nave Aquarius, al di là del merito, ha reintrodotto nel dibattito pubblico, come fosse un insulto, il sostantivo “buonista”. Buonista sarebbe sinonimo di ingenuo, o, per dirla con Dostoevskij, di “idiota”, nel senso di una persona che non si rende conto che grandi ingranaggi sono in moto, di cui essa non ha contezza alcuna o di cui non sa valutare la portata.

A volte buonista si usa come equivalente di irresponsabile, e implica una critica implicita a una persona ritenuta affine ad un’élite intellettuale incapace di percepire il sentire della “gente”. Buonista sarebbe in questo caso un altro modo per descrivere una persona che, dall’alto di una posizione confortevole e privilegiata, si permette il lusso di perorare l’accoglienza di migranti e di rifugiati, di “tollerare” (altro termine estremamente ambiguo) altre religioni, ed in particolare l’Islam.

Ora, è bene fare chiarezza. Per essere precisi, il buonismo, come atteggiamento che promana dai sentimenti più profondi delle persone, e cioè come capacità di empatia e di compassione, si declina come una virtù privata. Non c’è nulla di male in questo “sentire” altruistico, anzi. Tuttavia, a coloro che giustamente si indignano per la vicenda dell’Aquarius non si attaglia l’epiteto (tale è divenuto questo termine) di “buonisti”, bensì quello, più accurato, di “benisti”.

I “benisti”, infatti, non fanno agire i soli sentimenti, ma anche la volontà e l’intelligenza, perché “vogliono bene”, cioè vogliono il bene dei migranti. Il bene primario è la vita, ma il bene è anche un trattamento da esseri umani e non da merce di scambio in una partita tutta politica giocata sulle loro spalle.

I benisti, rispetto ai buonisti, hanno a cuore anche il bene comune, che è tale non perché è appannaggio di una sola comunità (nazionale o culturale), ma è perché è condiviso, partecipato. Non esiste un bene comune costruito sull’esclusione e sulla discriminazione.

I benisti, rispetto ai buonisti, agiscono inoltre in una dimensione di medio-lungo periodo, guardano agli aspetti strutturali delle questioni, e non solo ai ritorni immediati, spesso effimeri ed evanescenti.

In conclusione, vi chiediamo un favore: chiamateci benisti, e non più buonisti.

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