Nessun lavoro senza investimenti produttivi

Da Indesit alla Natuzzi: sono tante le fabbriche che hanno scelto di de localizzare le loro produzioni con prevedibili e drammatici risvolti sull’occupazione come testimoniano i dati Istat. Oltre alle leggi servono investimenti pubblici e l’Europa apre uno spiraglio
La fabbrica Natuzzi a Ginosa

L’ultima rilevazione Istat comunicata a fine giugno 2013 non può che confermare l’andamento dell’economia reale: la disoccupazione ha toccato il picco del 12,2 per cento, il più alto dal 1977, mentre quella giovanile non si schioda dal 38-40 per cento. Il rischio di avere una o due generazioni perdute, per mancanza di lavoro e di futuro, si associa al fenomeno di uno spreco di lavoratori costretti ad abbandonare scrivanie e officine nel pieno delle loro competenze e maturità professionali. Come sanno bene gli esperti, nelle società occidentali moderne è previsto da tempo il fenomeno della crescita destinata a non creare occupazione (“jobless growth”). Figuriamoci gli effetti di lungo termine di una recessione che vede crescere, invece, il numero di aziende che abbandonano i siti produttivi italiani, come sta avvenendo, da ultimo, con la Divani Natuzzi, simbolo del “made in Italy” che delocalizza in India.

Dove stanno i soldi?  Secondo Federlegno e arredo, associazione di categoria della Natuzzi, uno dei problemi è la domanda interna, crollata del 40 per cento. Parte delle famiglie non hanno soldi e non comprano, anche quando hanno bisogno di beni primari. Il reddito degli italiani è destinato a ridursi ulteriormente con l’aumento pendete dell’Iva che si ripercuoterà, come rileva con precisione la Cgia di Mestre, sui più poveri e sulle famiglie con figli. D’altra parte se non si aumenta la percentuale dell’imposta sui consumi (Iva) e non si applica quella sulla prima casa ( Imu), non resta che una politica di tagli alla spesa pubblica con la conseguenza di restare in un circolo vizioso dove invece di ridurre gli sprechi si riducono servizi essenziali quali sanità, scuola e assistenza sociale.

Nessuno riesce a mettere in bilancio le cifre iperboliche dell’evasione fiscale stimata in 180 miliardi di euro l’anno che giustificano il quadro di un Paese con una ricchezza privata tra le maggiori d’Europa ma divisa in maniera fortemente diseguale. Non si sono visti gli effetti positivi dei 95 miliardi rientrati con lo scudo fiscale anonimo voluto dall’ex ministro Tremonti. Il fiume di denaro non ha dato il via ad investimenti produttivi ma ha preso altre strade poco conosciute.

Cosa serve all’Italia? In questo quadro, come riconosce Lorenzo Bini Smaghi, già componente della Banca Centrale europea e autore del testo “Morire di austerità. Democrazie europee con le spalle al muro”( Il Mulino), la competitività dell'Italia non è cresciuta nonostante le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni.

Il governo Letta è tornato dall’ultimo vertice europeo con la disponibilità di un miliardo e mezzo di euro sul totale degli otto miliardi destinati, fino al 2015, alla lotta contro la disoccupazione giovanile nei Paesi dove supera il 25 per cento. Un risultato positivo, che obbliga a potenziare un carente servizio pubblico per l’impiego, ma nessuno propaganda la notizia come svolta per la ripresa che avrebbe bisogno di altre misure di carattere macroeconomico.

Il parere degli esperti Il Governo Letta ha inoltre varato il 26 giugno alcune misure urgenti per il rilancio dell’occupazione proposte dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini. Oltre agli incentivi (650 euro mese) per un anno e mezzo alle imprese che assumono, a tempo indeterminato, giovani e disoccupati, l’intervento di manutenzione della legge Fornero del 2012 si concentra sul rendere più facile la stipula e il rinnovo dei contratti a termine con l’accordo con i sindacati confederali di nuovo ricompattati. Il “pacchetto lavoro” è stato immediatamente giudicato «senza visione e senza progetto» da Michele Tiraboschi, direttore del centro studi Marco Biagi, già consulente dell’ex ministro Sacconi, che ha prodotto un dossier di circa 500 pagine, una «scrupolosa e serrata analisi tecnica delle singole norme di dettaglio e dell'intero impianto del provvedimento che ha coinvolto oltre 60 tra ricercatori e dottorandi».

Da parte opposta il giurista Piergiovanni Alleva, già responsabile della consulta giuridica della Cgil, definisce il decreto una misura destinata ad aumentare il numero dei precari allargando le maglie del contratto a termine dopo aver rimosso la reintegrazione sul posto di lavoro nei licenziamenti per motivi economici.   Anche Pietro Ichino, ex Pd, che insieme a Giuliano Cazzola, ex Pdl, esprimono come Scelta civica la linea sulla questione lavoro, giudica il provvedimento Giovannini «parziale e timido» perché l’incentivo non sarebbe tale da agevolare le assunzioni.

Il ritorno degli investimenti possibili Come si può intendere la questione disoccupazione dominerà un dibattito sul lavoro sempre più difficile e lacerante. Nel frattempo le vertenze aumentano assieme alle procedure di mobilità come quella di Tnt, la società di spedizioni controllata dalle Poste olandesi, che annunciando il licenziamento per 854 dipendenti si è dichiarata, da subito, indisponibile ad ogni trattativa. Davanti ai casi più eclatanti, come la Natuzzi o l’Indesit, scendono in strada anche i sindaci con tanto di fascia tricolore, simbolo di una sovranità da recuperare.

I primi segnali, come la recente decisione della Commissione Ue, sulla possibilità di avviare «investimenti pubblici produttivi» fuori dai vincoli di bilancio recepiti con il “fiscal compact” potrebbero ridare qualche segnale di una politica capace di incidere sull’economia reale e quindi sull’occupazione.

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