Nella Puglia che resiste alla mafia

Il 21 marzo è la giornata Giornata in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Quest’anno l'associazione Libera promuove a Foggia, territorio fuori dai riflettori mediatici, l’evento nazionale. Semi della “legalità del noi” piantati laddove imperversano il caporalato e una criminalità organizzata capace di una “ferocia oltre ogni limite”.

In primo piano un grappolo di pomodori maturi, frutto del duro lavoro dei campi. Sullo sfondo un intenso giallo ocra che richiama il sole e i suoli arsi del Tavoliere. È questo il simbolo grafico scelto da Libera per illustrare la XXIII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che il 21 marzo sarà celebrata in 4mila luoghi d’Italia, ma avrà a Foggia la sua piazza centrale.

Un’ immagine forte che in pochi tratti, e con una manciata di colori, riassume il senso profondo di un impegno e di una presenza. Spiega perché l’associazione presieduta da don Ciotti abbia deciso quest’anno che dovesse essere proprio questa porzione di Puglia, il pezzo d’Italia da portare all’attenzione generale, nel giorno della “primavera dell’antimafia”, celebrazione resa ora istituzionale anche da una legge dello Stato.

Il rosso dei pomodori annuncia ai coltivatori il momento atteso della raccolta, ma è anche quello che rimanda al sangue versato nelle campagne del Tavoliere, terre nelle quali da anni spadroneggia il caporalato che “schiavizza i lavoratori, rumeni ammassati nei bugigattoli come pelati in barattoli, costretti a subire i ricatti di uomini grandi, ma come coriandoli”, come canta il rapper pugliese Caparezza, nato e cresciuto solo pochi chilometri più a sud.

Don Luigi Ciotti
Don Luigi Ciotti

E così andare a Foggia significa onorare la memoria di Incoronata Sollazzo e Maria Incoronata Ramella, lavoratrici morte nel pulmino che le portava sui campi. Ma vuol dire anche ricordare l’albanese Hyso Telharaj, ucciso a 22 anni per il rifiuto di cedere parte dei suoi guadagni. Senza dimenticare che solo pochi mesi fa a San Severo, si era arrivati a sparare sui mezzi della polizia, a pochi giorni dallo sgombero del gran ghetto di Rignano, la bidonville dove vivevano in condizioni disumane centinaia di braccianti stranieri, pagati nulla per stare chinati ore e ore sotto il sole a raccogliere proprio quei pomodori.

Un lavoro nei campi che l’estate scorsa è costato la vita pure ad altri due onesti contadini, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, che una mattina di agosto, sfidando la calura estiva, coltivavano la terra a San Marco in Lamis. I killer del commando, entrati in azione in pieno giorno, li scambiarono probabilmente per appartenenti ad un clan rivale. Per questo li inseguirono nei campi, ammazzandoli a sangue freddo, dopo aver fatto fuori il boss e suo cognato, veri obiettivi dell’agguato. Non erano però al posto sbagliato al momento sbagliato, come la retorica a volte induce a dire in questi casi. Erano invece al posto giusto, nel momento giusto, come ricordato in quei giorni dalle colonne di Avvenire, da Toni Mira: «A quell’ora gli agricoltori sono sui campi, coi loro attrezzi, per tirar fuori dalla terra i frutti e un faticoso reddito. E dove altro potevano essere? A lavorare, a sudare».

L’uccisione dei fratelli Luciani ha obbligato lo Stato a mettere il Foggiano in cima alle emergenze criminali, spedendo in zona altri uomini e mezzi, così da dare maggiore sostegno a inquirenti e investigatori che da anni, lontano dai riflettori, arrestano latitanti e portano boss e gregari a processo.

Anche perché la cronaca di questi ultimi giorni non lancia segnali rassicuranti: ad Apricena c’è un sindaco che si sveglia al mattino e trova un ordigno artigianale davanti alla porta; il comune di Mattinata viene sciolto per infiltrazioni mafiose; a Foggia riprende alla grande la stagione delle esplosioni davanti ai negozi a ricordare a tutti che il racket da queste parti di solito si paga senza ribellarsi; nella campagne di Vieste i carabinieri del reparto “Cacciatori” continuano a trovare resti umani in una gravina profonda quaranta metri, quasi certamente una fossa comune per le vittime di lupara bianca. Notizie che spesso non bucano il filtro della cronaca locale, confermando l’invisibilità delle mafie foggiane, tristemente note a chi viva tra Gargano e Ofanto, ma quasi del tutto sconosciute al resto d’Italia, perché spesso ignorate dalla stampa nazionale.

Ed invece è questa la terra dei 300 delitti compiuti con “ferocia oltre ogni limite”, come ricordato inaugurando l’ultimo anno giudiziario dal procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto. Una scia di omicidi di cui l’80% resta ancora senza colpevoli, conseguenza del fatto che da anni nessuno, dentro queste organizzazioni mafiose, collabora con la giustizia. In clan rigidamente strutturati su base familiare come questi, passare dalla parte dello Stato significa non solo tradire la cosca, ma anche il proprio sangue.

Piazza Cavour a Foggia
Piazza Cavour a Foggia

Per tutto questo Libera ha scelto proprio la Capitanata. Per «denunciare» ha spiegato don Ciotti, «la potenza di una mafia emergente, ma colpevolmente sottovalutata, responsabile in questi anni di tanti omicidi, il più delle volte impuniti, a carico anche di innocenti». Ma ancor più per un altro motivo. Perché questa terra non avrà futuro se non verranno piantati semi di legalità, se la radice sana dell’impegno condiviso non sarà innaffiata dall’entusiasmo dei più giovani. Non a caso “terra, solchi di verità e giustizia” è lo slogan scelto per la manifestazione.

Quei pomodori rossi rappresentano dunque anche altro. Sono quel che la società civile solidale e coesa raccoglie quando l’impegno del singolo è riscaldato dal sole del sostegno del gruppo. «Saremo in Puglia» prosegue il presidente di Libera, «anche per incoraggiare una Puglia che resiste, fatta di gente perbene che nelle associazioni, nelle cooperative, nelle realtà laiche e religiose, o anche semplicemente assumendosi le proprie responsabilità di cittadino, s’impegna per il bene della sua terra e dell’intero Paese. Un’Italia che non si arrende, che crede e si mette in gioco per il cambiamento, che non si limita a constatare i mali, ma s’impegna per risolverli».

Ancora e sempre la forza di quel “noi” che don Ciotti non si stanca mai di sostenere. Un’energia che produce riscatto sociale e che anche in questa terra ha già prodotto frutti di legalità: dalla rivolta antiracket di Vieste sostenuta attivamente dalla cittadinanza fino alla battaglia di Daniela Marcone, figlia di un funzionario pubblico ucciso a Foggia e che oggi, dopo anni di impegno sul territorio, da vicepresidente nazionale di Libera, può con orgoglio dare il benvenuto nella sua città, a quel popolo che, assieme a lei, da anni, all’arroganza dei clan risponde: “noi”.

 

Gianni Bianco, giornalista Rai, è autore, assieme al magistrato Giuseppe Gatti, del testo edito da Città Nuova  “Alle mafie diciamo Noi

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