Nella notte con Jean-Michel Basquiat

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Basquiat non ama essere solo. Parla e ci interroga ancora attraverso la sua lingua colorata, primitiva e metropolitana insieme. Attraverso le tele, grandi, dove fissa immagini, pensieri, allucinazioni. In un percorso che zigzaga dentro una galleria scura dell’anima, esplorando le proprie lontane origini africane, i cambiamenti veloci degli anni Ottanta americani, i contatti con personaggi come Madonna o Andy Warhol: il mondo insomma che lo circonda, di cui capta emozioni fragili, sentimenti passeggeri, illusioni. Jean- Michel è un giovane artista vulnerabile. Ha avuto un’adolescenza dura, lo terrorizza l’idea della morte, della fama che ha raggiunto a vent’anni e che rapidamente declina. Tutta la sua arte – onnivora, urlante – è quella di una generazione assetata di luce, bramosa di uscir fuori dalla caverna inquieta e inquietante della sofferenza. Perché, nonostante i lustrini del successo – che gli arriva troppo presto -, l’esaltazione dell’ispirazione che sembra non abbandonarlo mai – dipinge anche un quadro al giorno, ed è subito nel mercato – Basquiat è un uomo colmo di affanni, che matura velocemente, come rapidamente si consuma, distruggendosi con la droga a 28 anni. Ma il suo viaggio notturno – nella vita come nell’arte – rimane colmo di un fascino misterioso che continua ad attrarci. Questo romantico americano che si nutre dei libri di Kerouac, del jazz, del cinema, ha una vitalità inesauribile. Esplora tutto, vuol parlare di ogni cosa. Il guerriero (The Warrior, 1982) è un feticcio terrificante e nero, sullo sfondo di una luce abbagliante: quasi una teofania primordiale. Il Senza titolo (Fallen Angel, 1981) è l’apparizione di un essere angelico dal nimbo coronato di spine: il pittore lo circonda di segni, linee, di accensioni cromatiche, senza poterlo però decifrare. Nell’incandescente Mater (1982) è il fondo cupo a far vibrare l’immagine, dai tratti quasi infantili, di una maternità primitiva, mentre la celebre Mona Lisa, 1983, più che derisione di un’ icona di bellezza classica è un messaggio beffardo della sua riduzione a forma di consumo. Il mondo appare spesso a Jean- Michel come un cosmo di immagini e messaggi impazziti. Così ci rovescia in Famous Moon King un barocco assemblamento di forme disegni scritte: è la babele attuale, da cui riesce impossibile fuggire. La morte resta con la sua tragicità in agguato. Spike del 1984 è una visione paurosa di essa ed il giallo solare che l’avvolge non è per nulla consolatorio, anzi l’uso dell’acrilico e del pastello grasso la rende ancor più drammatica. Si grida, spesso, dalle bocche aperte delle creature di Basquiat. Ma è suo l’urlo. Negli autoritratti del 1986 è idolo cupo e pauroso, stilizzato in segni feroci, o feticcio disperato tra colori innaturali. Finché nell’ultimo anno di vita dipinge una cavalcata con la morte ( Riding with death) di sorprendente bellezza: l’uomo, carne e scheletro insieme, è sulla groppa del cavallo già corrotto, come nei dipinti medievali. Il fondo è neutro, ma non scuro. Forse dipinta in uno stato visionario, la tela non appare tuttavia allucinata. Piuttosto, la mano tesa in avanti, indica che il viaggio verso una possibile luce si sta compiendo. L’ultima parola di Jean-Michel, dopo tante incursioni selvagge e vitalistiche, non è perciò drammatica. Indica la dissoluzione – le ossa son sparse qua e là – ma la corsa sta raggiungendo la sua meta. Al termine del suo e nostro viaggio – fra un’ottantina di tele e disegni – Basquiat ci meraviglia ancora. Il discorso con lui non è dunque finito. The Jean-Michel Basquiat Show. Milano, Fondazione La Triennale, fino al 28/1 (catalogo Skira).

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