Nella masseria armena il dramma di un popolo

Il romanzo di Antonia Arlsan “La masseria delle allodole” rivive sul palcoscenico di San Miniato con la regia di Michele Sinisi. Attraverso le vicende di una famiglia il racconto delle atrocità del genocidio armeno.  

Rappresenta una vera e propria sfida tradurre per il palcoscenico non solo le pagine di un romanzo, ma soprattutto la sostanza del suo contenuto. Specie se si tratta di storia, di avvenimenti reali, accaduti, difficili da raccontare per il peso di cui sono portatori, per le parole cariche di significato il cui pronunciamento apre ferite e svela atrocità che si vorrebbe nascondere. La parola impronunciabile è: genocidio. Quello degli Armeni. Il libro in questione, che ha avuto la forza dirompente di far conoscere una delle pagine più buie della storia del Novecento riguardo gli stermini di massa (aprendo la strada ad altri stermini che si sono succeduti) è La masseria delle allodole, di Antonia Arlsan. Nel romanzo della scrittrice padovana, armena per discendenza e custode di racconti ascoltati da bambina, viene ricostruito sul filo delle memorie familiari, un frammento intimo e doloroso del genocidio perpetrato e pianificato dall’Impero Ottomano durante la Prima Guerra mondiale, che proprio quella guerra fece passare in secondo piano permettendo di far calare il silenzio sulla carneficina armena e nasconderla agli occhi, complici, di buona parte del mondo, specie europeo. L’uscita del libro, che risale al 2004, tradotto in ventitré lingue, e il film appassionato dei fratelli Taviani che ne è seguito nel 2007, ha avuto l’effetto di far conoscere la storia ad un pubblico più vasto possibile, e suscitato l’interesse ad approfondire l’argomento su quello che ancora oggi la Turchia si rifiuta di ammettere ufficialmente che sia accaduto.

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Lo stesso effetto di esigenza di approfondimento lo produce ora, tra il resto, la bellissima trasposizione teatrale del romanzo realizzata per la 72esima Festa del Teatro di San Miniato, trascrizione che, dicevamo, rappresenta una sfida. Vinta magistralmente dal regista e attore pugliese Michele Sinisi che del romanzo, insieme alla libera elaborazione drammaturgica con aggiunta di richiami attuali di Francesco M. Asselta, ha realizzato uno spettacolo di grande impatto oltre che contenutistico anche visivo. Utilizzando molti mezzi del teatro contemporaneo non solo riguardo i materiali – video, proiezioni in diretta, microfoni a vista, cellulari, pc – ma soprattutto come linguaggio scenico ricco di segni, Sinisi compie un’acuta operazione di adattamento focalizzando su due piani complementari la vicenda. In occasione della morte del capofamiglia, il primogenito Yerwant, trasferitosi in Italia giovanissimo, decide di ritornare in patria per riabbracciare la famiglia e suo fratello Sempad. Tutto si svolge attorno ad una grande tavolata, nel via vai festoso della famiglia Avakian colta nella quotidianità dei preparativi di un pranzo armeno con pietanze reali cucinate dei quali ci giunge anche l’odore, mentre si discute di filosofia, di sogni, di amori, di contrasti generazionali, di natura, di poesia, fede e spiritualità.

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Oscurando quell’abbondante parte di scena centrale, in un angolo s’illumina a più riprese il dialogo tra un politico e un colonnello. Sono discorsi che presagiscono quello che poi avverrà: il piano di annientamento di un intero popolo. Una carneficina, che avrà come nido quella masseria dove saranno tutti sterminati nei modi più cruenti. Lo spettacolo non segue una narrazione consequenziale ma spezzata, creando un cortocircuito tra passato e presente. Si giunge così gradatamente, quasi senza accorgercene, all’atto finale dell’irruzione omicida, seguendo, nel frattempo, l’insinuarsi nella testa del colonnello, inizialmente contrario alle tesi dello scaltro politico, e riluttante a eseguire gli ordini anteponendo al massacro la propria coscienza, quell’idea di sterminio “necessario” perché d’intralcio al progetto della “Grande Turchia”. Nelle sequenze che si succedono, alternando una coralità festosa di balli e musiche sulle canzoni di Aznavour, di Antony and the Johnsons, di arie d’opera e di canti tradizionali, a stacchi monologanti, a battibecchi, e a duetti come la lettera tra padre e figlio, o quello tra i due giovani innamorati che leggono di nascosto i versi scespiriani di Romeo e Giulietta nei quali si identificano, si delinea man mano la tragedia imminente. E a presagirla sarà anche il monologo al microfono dell’unica donna sopravvissuta della famiglia, voce di tutte le donne stuprate e deportate, che la telecamera riprende proiettandola su uno schermo laterale, mentre le scorre del sangue sulle gambe e con la veste macchiata. Alla parola Sinisi accompagna una mappa di segni scenici e sonori – il rumore di un elicottero, il cupo tonfo di un frigorifero che cade a più riprese, i dialoghi seguiti da un tecnico con un asta di microfoni in presa diretta – secondo un procedimento cinematografico che alterna campi lunghi a primi piani coinvolgendoci sempre più nella vicenda umana e storica con un afflato che emoziona. Fino allo spiazzante e provocatorio finale in cui, mentre il giovane colonnello, gridando racconta nei dettagli la mattanza, tutti i personaggi staccandosi uno ad uno dal ballo corale e iniziando a indossare caschi e tute da unità antisommossa e manganelli in mano, si trasformano in carnefici.

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Al tumultuoso precipitare dall’alto di una massa di grucce, irrompono sulla scena distruggendo letteralmente tutto. Segue un grande silenzio davanti al grande Crocefisso in gesso precedentemente portato sulla tavola dei commensali (segno, “cibo” dell’Ultima Cena?). Issato lateralmente e ignorato, i militari prima imitano sarcasticamente un canto di voci bianche, poi accorgendosi del Crocefisso lo guardano e deridendolo gli lanciano oggetti finché uno di loro spezzerà le gambe al Cristo. Il sacrilegio è compiuto. Verso Dio e verso l’uomo. Un’immagine potente, provocatoria, cui segue un’altra grande intuizione del regista, quasi a domandare spiegazioni per quel “silenzio di Dio” davanti alle atrocità che l’uomo compie. Un militare recupera il microfono panoramico e lo avvicina alla bocca del Cristo, aspettando che parli. A quella voce muta si aggiunge, spostando il microfono in alto, il silenzio del cielo. Infine, al fischietto del richiamo degli uccelli, compare un grande pupazzo raffigurante un’allodola sulla quale un agente si accanisce pestandola con una mazza fin quando va via e lui continua a vuoto a percuotere l’aria. L’uccello che annuncia l’alba – è questa la simbologia dell’allodola, messaggero tra l’umano e il divino, che ha ispirato la correlazione tra il cielo e la terra – non può essere abbattuto dalla violenza dell’uomo. Uno spettacolo necessario, potente, reso tale anche dalla bravura del nutrito cast di quattordici attori, e che, ci si augura, possa avere una lunga vita e circuitazione nei nostri teatri.

“La masseria delle allodole” dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan
elaborazione drammaturgica di Francesco M. Asselta e Michele Sinisi
regia Michele Sinisi
scene Federico Biancalani
costumi Elisa Zammarchi
luci Federcio Biancalani e Michele Sinisi
interpreti (in o.a.) Stefano Braschi, Marco Cacciola, Gianni d’Addario, Marisa Grimaldo, Giulia Eugeni, Arsen Khachatryan, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster, Roberta Rosignoli, Michele Sinisi, Adele Tirante.
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale – Arca Azzurra Teatro – Fondazione Istituto Dramma Popolare.

 

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