Nassiriya e il risarcimento dovuto

Riconosciuto il diritto dei familiari delle vittime della strage dei militari italiani in Iraq. Ma il discorso sulla responsabilità rimane aperto
Nassiriya funerali militari italiani

Piazze e scuole in Italia sono state intitolate, in breve tempo, ai “martiri di Nassiriya”. Il nome con cui la guerra in Iraq è entrata nell’immaginario collettivo diventando partecipazione al dolore per le giovani vite spezzate nell’attentato che, nel novembre 2003, investì la base militare Maestrale: 19 italiani tra cui 2 civili oltre a 5 soldati e 12 carabinieri.

 

Ora la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza del 2009 con cui la corte d’Appello militare di Roma aveva negato il risarcimento ai familiari delle vittime per la carenza di misure di sicurezza adeguate che andavano assicurate in un luogo di combattimento. L’avvocato di gran parte dei familiari coinvolti, Francesca Conte, pur nella soddisfazione per il verdetto, ha voluto ricordare l’amarezza dei suoi assistiti davanti ai tentativi, avvenuti nel dicembre 2009, di cambiare alcuni articoli del codice penale militare proprio per evitare il riconoscimento della responsabilità dei vertici con le stellette, che è la premessa indispensabile per sostenere il diritto al risarcimento del danno.

 

L’attentato di Nassiriya avvenne pochi mesi dopo il 15 febbraio del 2003, giorno di una manifestazione planetaria contro la guerra che vide anche Roma invasa da un oceano di persone della più diversa provenienza. Quel giorno, in piazza san Giovanni, si trovava anche un giovane, Aureliano Amadei, che, da lì a poco, sarà coinvolto in una produzione cinematografica che lo porterà proprio a Nassiriya dove rimarrà ferito gravemente dall’esplosione del camion imbottito di tritolo lanciato contro il posto di blocco del contingente italiano. La sua esperienza, riportata nel libro “Venti sigarette a Nassiriya” Einaudi 2008, ha permesso di conoscere, senza retorica, il clima confuso, comprese le negligenze, di quei giorni. Uno sforzo per recuperare il volto semplice e autentico di alcuni di quei ragazzi scomparsi improvvisamente e ricordarci le dimenticate 9 vittime civili irachene, tra cui alcune bambine che si trovavano su uno scuolabus di passaggio.

 

Nel racconto di Amadei c’è l’episodio di quando, ormai ricoverato in ospedale vicino casa, riceve la visita di un amico indifferente verso i soldati uccisi perché “se la sono andata a cercare”. Vorrebbe rispondere e far capire che la realtà è diversa e complessa aprendo uno squarcio di un’umanità ferita dal profondo di fronte all’assurdità di una guerra che abbatte ogni categoria e pregiudizio. Alla fine, vinto dalla stanchezza, tace, anche se è un silenzio che fa comprendere la necessità di fare i conti con una responsabilità personale e collettiva nei confronti delle ragioni e dei compromessi che giustificano una guerra, come quella in Iraq, che continua a produrre prevedibili e drammatici effetti collaterali.  

La sentenza della Cassazione mostra, quindi, l’importanza di poteri diversi e bilanciati in uno Stato per rimediare ad un’ingiustizia palese, ma lascia aperto il capitolo più importante della vicenda. Che richiama e richiede altre competenze.  

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