Myanmar, la strage silenziosa dei cristiani

Un’altra etnia, oltre ai rohingya, è schiacciata nel Nord del Paese. Sono i kachin, ma su di loro c’è meno attenzione mediatica
EPA/LYNN BO BO

Stesse tecnica, stessa crudeltà di pulizia etnica usata per altri gruppi. Anche se il male, il dolore provocato, la morte, non sono mai uguali. I kachin, in maggioranza cristiani, sono una piccola minoranza che vive nel Nord del Myanmar, al confine con la Cina.

Un storia di guerriglia, dopo che l’etnia bama o phama, di maggioranza in Burma (come si chiamava il Myanmar in quel tempo) non ha rispettato i patti degli accordi post indipendenza dall’Inghilterra del 4 gennaio 1948 e ha cominciato a lanciare i suoi militari, il Tatmadaw, contro la minoranza prevalentemente cristiana. Così, dal 1961, ben 57 anni fa quindi, è nata la milizia Kachin Indipendence Army (Armata indipendente kachin) o Kia. A varie riprese, dal 1961 fino al 1994, e poi dal 2011 fino ai nostri giorni, i kachin hanno tentato di sopravvivere all’avanzata dell’esercito di Naypyidaw: un’impresa pressoché impossibile, vista la superiorità numerica e di capacità bellica del nemico.

I kachin vivono in realtà tra tre Paesi: Myanmar, China e India, sulle montagne che uniscono questi Paesi. Sono circa 1.600.000, ma più di 100 mila sono dispersi e in migliaia vivono nelle foreste. L’esercito regolare del Myanmar, da aprile di quest’anno, non permette alle agenzie non governative e tanto meno all’Onu di entrare in tali foreste per poter aiutare i kachin che vi si sono rifugiati: le malattie, il clima e le indicibili difficoltà decimano questa gente, che è fuggita per salvarsi la vita. Se non sono i mortai e le pallottole, saranno la fame e le zanzare a fare il resto.

A Mae Sot, al confine tra Thailandia e Myanmar, molto lontano dallo Stato kachin quindi, ne ho incontrati alcuni, persone che per anni hanno vissuto nella foresta per sfuggire agli attacchi dei militari. I bimbi kachin in genere non sorridono e non parlano, a volte per anni, tanto è grande lo spavento. Per non parlare delle donne, delle violenze che hanno subito… quelle che lo possono ancora raccontare.

Quali sono le ragioni di questo conflitto e perché questo accanimento contro il popolo kachin?

L’esercito birmano, che detiene per Costituzione, il 25% del parlamento, è interessato a questa regione per una semplice ragione: le centinaia di miniere di una tra le pietre preziose più ricercate al mondo, la giada. Un business molto lucrativo: si parla di qualcosa come 12,3 miliardi di dollari annui, che i militari intendono prendere completamente nelle loro mani. Solo un gruppetto di 10, massimo 15 persone, controlla in effetti le 100 miniere. E queste pietre, attraverso un particolare sistema di esportazione clandestino, frutta guadagni da capogiro e non è controllato da nessun altro, se non da chi ha in mano i fucili pronti per sparare. Recenti reportage del Guardian e di al-Jazeera hanno recentemente riportato a galla il problema.

Intanto l’esercito regolare del Myanmar, forte anche della superiorità aerea, tenta di schiacciare in questi mesi il Kia in modo definitivo, in modo da non avere più nessuna resistenza e prendersi tutto il territorio kachin, con la sua capitale, la bella cittadina tra le montagne chiamata Myitkyina . La gente comune, all’arrivo dei soldati e dei colpi mortai ha una sola opzione: fuggire. Tra aprile e maggio di quest’anno in più di 7 mila hanno dovuto lasciare i loro villaggi e circa 2 mila si sono rifugiati nelle montagne, protetti dalla foresta. Quanto ancora riusciranno a resistere? La comunità internazionale non muove un dito e il conflitto è nel dimenticatoio dei mass media. La Cina, che benefica maggiormente del business delle pietre preziose importate, chiude un occhio, anzi due: la sua politica di “non interferenza” in questione interne con i suoi partner commerciali non lascia nessuna porta aperta a un intervento a favore di questa minoranza cristiana schiacciata.

Almeno noi ricordiamoci di loro: di Tang Seng, per esempio, che appena ha sentito gli spari è corso dalla sua nonna, di 114 anni, che chiedeva di essere lasciata lì, per dare al nipotino la possibilità di correre più veloce. «Magari mi uccideranno ma tu almeno salvati», gli ha detto. Tang Seng ha scelto di portarsela sulle spalle, attraversando un fiumiciattolo e fuggire, insieme ad altra gente, verso non si sa dove, da qualche parte nella foresta tra Myanmar, Cina e India.

 

 

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