Migranti: aprire mani e cuore

L’esperienza di uno psicologo presso un centro Caritas di Lamezia Terme che accoglie immigrati. Oltre l’aiuto materiale occorre condividere con loro pensieri e speranze
migranti

Sono psicologo e lavoro in un centro della Caritas che accoglie persone senza fissa dimora, soprattutto immigrati di varie nazionalità, in prevalenza musulmani. Persone che hanno alle spalle situazioni inimmaginabili: povertà, guerre, familiari uccisi, peripezie inaudite per arrivare in Italia. E poi, una volta qui, mancanza di alloggio, di lavoro, di tutto. A volte li vedo arrivare solo con quello che hanno addosso: infradito, jeans e maglietta. Per non dire della diffidenza che incontrano, se non addirittura della violenza: l’estate scorsa uno dei nostri ospiti è stato insultato e picchiato per strada.

 

C’è poi la lontananza dai familiari: genitori anziani, moglie e figli piccoli rimasti nei Paesi di origine. Ricordo Rahman del Bangladesh che piangendo mi raccontava di quando, giunto in Italia, aveva ricevuto la notizia che il suo bambino di otto mesi era morto. E Salim della Siria, con altri cinque fratelli sparsi per l'Europa, che mi diceva: «Io non potevo vivere senza i miei fratelli, né loro senza di me… ma la vita ci ha divisi».

 

Nonostante tutto, in genere vedo in loro un atteggiamento pieno di speranza verso la vita, con una capacità di sorridere ancora che mi sorprende, specie se penso a noi che, pur avendo tutto, siamo molto spesso insoddisfatti. Lavorare con loro perciò è per me un’esperienza molto arricchente, in cui ho imparato e continuo a imparare molto.

 

Ricordo un giorno: avevo accompagnato alla stazione Farouk del Bangladesh che partiva per la Sicilia. Mentre aspettavamo il treno, noto che porta al collo una catenina. Gli dico: «Bella questa catenina! Ti sta bene». Non avevo neanche finito di parlare che lui se la toglie dal collo e la mette al mio. Rimango sorpreso e dico: «Ma no, magari te l’ha regalata la mamma, è un ricordo di famiglia». E lui: «No, sta meglio a te. E poi è bella perché è d’acciaio e non diventa nera».

 

Mi colpisce poi il rispetto che hanno verso le persone più grandi d’età. Una sera un ragazzo italiano si è rivolto verso di me in maniera sgarbata. Il giorno dopo Omar del Ghana mi dice: «Sono rimasto male per come ti ha trattato quel ragazzo italiano, perché tu per me sei come mio padre, hai la sua stessa età, e quando parli io devo accogliere quello che mi dici». Omar poi da sei anni soffriva di ernia inguinale e non c’era mai stato chi lo aiutasse a risolvere questo problema. Ci siamo dati da fare, sbrigando tutte le pratiche burocratiche necessarie. Il giorno dell’intervento sono stato con lui dalla mattina presto quando l’ho accompagnato in ospedale fino a sera quando si è svegliato dall’anestesia. Nella stanza c’erano altri degenti attorniati dai familiari. Lui si guarda attorno e mi dice: «Adesso sei tu la mia famiglia». E prima di partire mi ha ripetuto più volte: «Non dimenticherò mai quello che hai fatto per me».

 

E ancora mi colpisce la religiosità dei musulmani che pur in mezzo al chiasso si mettono a pregare sul loro tappetino cinque volte al giorno e veramente non concepiscono la vita senza Dio. Proprio come scrive il mistico musulmano Ibn Arabi, che non bisogna «lasciare mai neanche per un istante la Presenza Divina».

 

A guidarmi nel mio lavoro sono le parole del Vangelo «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… ero forestiero e mi avete ospitato…  Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me»,quelle che il Signore ci rivolgerà quando ci troveremo davanti a Lui. Per me è un "toccare" la carne di Cristo che vive nei fratelli – in particolare nei poveri – come nell'Eucaristia. Perciò cerco di amare queste persone ad una ad una, cominciando dai bisogni concreti: cibo, vestiario, rinnovo dei documenti, ricerca di un alloggio, di un lavoro, sostegno psicologico. Il bagagliaio della mia auto è sempre pieno di cose che persone generose mi danno (vestiti, scarpe, lenzuola, asciugamani, piatti, bicchieri) e che poi distribuisco.

 

Mal’aiuto materiale non basta: bisogna mettere in moto il cuore. Un giorno arriva un giovane marocchino, disperato perché aveva ricevuto lo sfratto. Gli chiedo: «Hai qualche amico che possa aiutarti?». Scoppia a piangere e tra le lacrime mi dice: «Sono solo, non ho nessuno!». Rimango senza parole, schiacciato da un senso d’impotenza. Poi d’impulso mi alzo, vado al di là della scrivania e lo abbraccio, anche se era molto sudato. Pian piano lo vedo calmarsi. Poi si alza e con tono di voce tranquillo dice: «Ora so che non sono più solo». E si avvia verso la porta, quasi che quel semplice gesto fosse bastato a fargli dimenticare tutto ciò di cui aveva bisogno. A quel punto sono stato io a trattenerlo per spiegargli come avremmo potuto fare per le sue necessità. Certo che quando è andato via era una persona completamente diversa.

 

Nel cercare alloggio per questi fratelli immigrati, incontriamo tanti pregiudizi. La gente ha paura e non vuole affittare le case. Ma anche quando riescono a trovare un appartamentino, lo stato in cui si trova fa male al cuore. Una sera ho portato dei piatti e delle pentole ad un ragazzo somalo: che squallore, che povertà! Mobili sgangherati, materassi con le molle tutte fuori, come quelli che a volte si vedono accanto ai cassonetti della spazzatura (almeno qui in Calabria!), forse presi proprio da lì. Davanti a questi spettacoli, penso allora che la mia casa deve avere il timbro dell’essenzialità, affinché nessun povero entrando debba arrossire. Così pure per il mio modo di vestire, le cose che possiedo: voglio avere solo ciò che è essenziale ed eliminare il superfluo, che non è mio ma dei poveri. O meglio sento che devo valutare ciò che è essenziale o superfluo in base ai bisogni degli altri: solo così ci può essere davvero giustizia. Inoltre ho constatato che se non si ha un rapporto reale con i poveri, è più difficile vivere la povertà evangelica.

 

Quando per qualche motivo mi devo assentare dal lavoro, mi cercano e mi chiedono: «Perché non sei venuto? Dove sei?», segno questo che al di là del lavoro sono nati dei rapporti che a volte hanno il sapore dell’amicizia, altre volte quello della paternità, sempre comunque della fraternità. Rapporti che rimangono anche dopo la loro partenza per altre città d’Italia o d’Europa in cerca di lavoro.

 

Ma l'amore deve farsi costume e l'accoglienza diventare integrazione. Per questo è importante per noi coinvolgere il territorio. Venti famiglie italiane preparano a turno i pasti per gli ospiti del dormitorio e anche i miei amici sono coinvolti in questa esperienza: prepariamo pure noi, quando è il nostro turno, la cena e la consumiamo con loro, oppure ne invitiamo qualcuno a pranzo. Oreste tiene il corso di italiano e spesso mi accompagna la sera, quando ci sono delle emergenze, a portare coperte o cibo. Shoukri dell'Iraq mi ripete sempre: «I tuoi amici hanno il cuore grande come te, al cento per cento!».

 

Un giorno al lavoro vedo arrivare sei ragazzi. Erano italiani, ma tra loro ce n'era uno di origine chiaramente marocchina, Ayoub, che vive in Italia da quando era bambino. Avevano incontrato alla stazione tre immigrati africani, avevano portato loro cibo e vestiti e ora cercavano da noi un posto dove farli dormire. Mi hanno colpito questi ragazzi desiderosi di aiutare gli altri e parlando è nata l’idea di un torneo di calcetto tra loro e i nostri ospiti. Erano entusiasti, soprattutto Ayoub che il giorno dopo mi chiama per dirmi che aveva già prenotato il campetto. Gli rispondo: «Ma i nostri ragazzi non hanno ancora pantaloncini, scarpette…». E lui: «Tranquillo, ci pensiamo noi!». Difatti dopo un paio di ore li vedo arrivare con tutto ciò che occorreva anche per i nostri ragazzi. Quella partita è stata l'inizio di un intreccio di rapporti che ha portato e continua a portare tanti frutti. Una sera scrivo ad Ayoub che è musulmano: «Non è un caso se ci siamo conosciuti. Forse Dio-Allah vuole che facciamo cose belle a Lamezia per far crescere la fraternità tra giovani italiani e giovani stranieri». Risposta: «Sono più che d’accordo con te. Anch’io credo in queste cose. M’impegnerò al massimo per fare tutto quello che posso. Ormai siamo tutti fratelli».

 

Esperienze come queste mi danno speranza per il nostro futuro: un futuro che sarà sempre più multietnico e multiculturale, e perciò avrà bisogno di gente capace di accogliersi e di amarsi.

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