Mi chiamano Stella

Storia di Chiu Yuen Ling, dall'agnosticismo alla fede cristiana. Il suo impegno nel rapporto tra le grandi religioni.
Stella Chiu Yuen

«Il mio nome è Chiu, ma tutti mi chiamano Stella: è il nome che mi è stato dato da Chiara Lubich il giorno del mio battesimo, il cui significato più profondo mi sembra appunto quello di stella che brilla nel buio della notte, mostrando a tanti la strada verso Gesù.

«Sono nata e cresciuta ad Hong Kong, una città ultramoderna, dove una cultura costruita sulla radice orientale si mescola e convive con tanta influenza occidentale. La mia famiglia, come la maggior parte di famiglie là, non è cristiana, ma ognuno aderisce ad una religione di propria scelta. Infatti mio padre ed una mia sorella sono non credenti, mia madre è di tradizione confuciana, ed ho un fratello cattolico e una sorella battista. Però l’amore e il rispetto tra noi è grandissimo e la nostra è una famiglia molto unita.

«Io frequentavo una scuola anglicana, ma non aderivo a nessuna religione. Conoscevo la Bibbia (a scuola era una materia di studio), ma non sentivo il bisogno di Dio. Tutto sembrava andare bene nella mia vita, non mi mancava nulla e, anche se Dio esisteva, pensavo non avesse a che fare con me».

 

Ad Hong Kong facevi l’ispettrice di polizia. Come mai hai scelto una professione così rischiosa? 

«Dopo la laurea in letteratura inglese e cinese, con entusiasmo e consapevolezza mi sono lanciata in una professione avventurosa: diventare poliziotta. Credevo profondamente che con la forza della legge avrei contribuito a portare la giustizia e la sicurezza, e con esse il benessere, nella società».

«Mi sono però trovata immersa in un mondo in cui i valori morali, la mentalità, il comportamento, erano completamente diversi da quelli in cui avevo sempre vissuto. Una volta, ad esempio, un criminale arrestato era riuscito a distruggere le prove a suo carico. Qualcuno, sapendo che lui aveva commesso il fatto, ha precostituito un’altra prova. In quell’occasione ho espresso chiaramente il mio dissenso: non mi sembrava lecito che, per raggiungere la giustizia, si dovessero utilizzare mezzi ingiusti.

«Non era però sempre facile. Ad un certo punto ero disorientata, non mi sentivo più coerente a quei princìpi con cui avevo iniziato questo lavoro. Mi domandavo: “Perché esiste il dolore, il male, e nessuno può sollevarlo?».

 

Come ti sei avvicinata al cristianesimo?

«Proprio in quel periodo sono stata invitata ad un incontro delle giovani dei Focolari. Per la prima volta, attraverso le esperienze che raccontavano, ho capito cosa vuol dire “vivere il Vangelo”. Ho conosciuto Dio amore e l’amore del prossimo. A poco a poco ho cambiato atteggiamento anche sul lavoro e ho cercato di mettermi al servizio di quanti capitavano al distretto di polizia, non solo di chi soffriva e chiedeva aiuto, ma anche di chi aveva preso una strada sbagliata. Mi sono sempre di più convinta che questo amore, questa “compassione” nata nel mio cuore veniva da Dio. Così, la notte di Natale del 1977, ho ricevuto il battesimo».

 

Da Hong Kong al mondo sulle frontiere del dialogo. Ci puoi dire qualcosa di questa tua esperienza?

«Frequentando le focolarine di Hong Kong, sentivo che una vita spesa per Dio mi attirava. Ma non era facile scegliere per tutto quanto avevo già stabilito: la famiglia, le amicizie, la carriera che mi offriva tante possibilità di fare del bene. Però una parabola del Vangelo mi ha illuminato: Gesù parla di un mercante che va alla ricerca della perla preziosa e, quando la trova, vende tutto per comprare quella perla. Così sono partita da Hong Kong nel ’78 e ho incominciato una nuova avventura per me meravigliosa.

«Ho vissuto a Manila, quindi in Italia nella cittadella di Loppiano e a Pescara. Lì ho capito che “dare la vita” voleva dire dimenticare me stessa. Ad esempio, come cinese, amo molto la precisione e per comunicare i miei sentimenti non uso troppe parole. Più volte mi sono trovata a vivere con giovani africane o sudamericane, con caratteri allegri e aperti, con tanta fantasia e libertà di espressione. Così ho scoperto la ricchezza e la bellezza di ciascuna, creata come dono di Dio per me».

 

Nel 1986 sei andata in Pakistan, un Paese musulmano, con culture e usanze a te del tutto ignote.

«Ciò che più mi faceva male era l’abisso enorme tra i ricchi e i poveri. Davvero il mondo unito mi sembrava in quel contesto un’utopia. Insegnavo in una scuola internazionale, dove i ragazzi avevano tutte le comodità, come ad esempio l’aria condizionata, mentre nella scuola locale i ragazzi non avevano neanche i banchi e dovevano innaffiare il pavimento dell’aula per abbassare la temperatura che saliva sino a 40 gradi. Per di più, un virus tipico del posto mi ha costretto a stare quasi un mese a letto.

«Ad un certo punto ho perso l’entusiasmo e pensavo di aver giocato la mia vita per un’illusione. Ho ricordato allora una risposta di Chiara: ad una mia domanda su come fare a ritrovare il rapporto con Gesù abbandonato, lei mi aveva incoraggiata a vivere per lui anche nella mancanza di rapporto con lui. “Se lo ami veramente – diceva –, verrà il momento che sentirai al fondo del cuore di avere, in pratica, un solo amore: Gesù”. Questo mi ha ridato le ali, allora e sempre, per spiccare il volo, fissando la bussola in lui». 

 

Da qualche anno fai parte dell’équipe che al centro del movimento opera per il dialogo con le grandi religioni. Cosa puoi dire di questa nuova tappa?

«Spesso al nostro centro vengono delegazioni di varie religioni. Per noi è sempre un arricchimento. Ad esempio, preparando il simposio con gli amici musulmani, ci siamo procurati tanti tappeti per allestire una sala di preghiera. Ci sono stati riconoscenti per questa attenzione nei loro riguardi.

«Posso dire che la mia esperienza di lavoro in questi anni è quella di cercare di essere vuota di me stessa per seguire ciò che Dio vuole ispirarci. Come Chiara ci ha sempre mostrato, per poter dialogare con i fratelli e le sorelle di altre religioni bisogna prima di tutto vivere il “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, “regola d’oro” che tutte le tradizioni religiose possono perfettamente condividere. E da lì nascono rapporti nuovi, profondi, e si aprono inattese vie per il dialogo».

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