Maternità al bivio

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Sei davvero disposta ad aiutarmi? È un martedì a metà mattina, lo ricordo benissimo. Sono in ufficio, al lavoro, e come al solito chiamo casa, per parlare con Isabel, la donna che mi aiuta per le pulizie. Le spiego alcune cose urgenti da fare. Nel rispondermi, sento che la sua voce è un po’ alterata. Mi interrompe, quasi senza farmi concludere. “Io volevo avvertirla – mi dice – che domani non potrò venire: mia figlia ha un appuntamento dal medico per abortire ed io desidero accompagnarla”. Io ero al corrente che una figlia, di cui Isabel mi parlava, aspettava un bambino. Sapevo anche che viveva con i genitori e non era sposata. Ma resto ugualmente interdetta. Isabel, all’altro capo del telefono, nota il mio mutismo e prosegue spiegandomi, quasi a volersi scusare, di non essere d’accordo sull’aborto. “Però – dice – siccome mia figlia sta seguendo una terapia molto forte, l’endocrinologo le ha consigliato di interrompere la maternità: il bambino certamente nascerà con gravi malformazioni”. Ci salutiamo. Nondimeno dentro di me mi sento inquieta. Avverto che occorre fare qualcosa. Ma cosa? Sono presa da questi pensieri, quando in ufficio entra una mia vecchia compagna di scuola, farmacista. Ho modo di chiederle un parere sul farmaco che la ragazza sta assumendo. Mi conferma che, in realtà, quel medicinale è molto aggressivo, ma che esistono cure alternative per le donne in gravidanza. Senza pensarci su due volte, chiamo di nuovo Isabel per riferirle quanto ho appena saputo. “I medici – aggiungo – hanno parlato a tua figlia dell’esistenza di medicine altrettanto efficaci, ma non nocive al bambino?”. “Guarda – mi risponde – non so esattamente come stanno le cose. So solo che per noi è impossibile accogliere questo bambino in casa, con la mamma che a causa del suo stato di salute non può provvedere al suo mantenimento: è proprio impossibile…”. Parlo così con la ragazza. Mi dice di non aver mai saputo di cure diverse, dato che le è stato consigliato direttamente di ricorrere all’aborto. Aggiunge di essersi decisa a quel passo perché non vuole mettere al mondo un infelice: potrà avere altri figli quando tutto sarà in ordine, avrà lavoro e salute. Si sente in ogni caso impreparata, così giovane, a prendersi cura da sola di un bambino difficile… Le motivazioni addotte sono tali, che mi sembra del tutto inutile proseguire quella conversazione, penosa per tutte e due. Termino così il colloquio dicendole: “Voglio che tu sappia che, se mai deciderai di tenere il bambino, potrai in ogni caso contare sul mio aiuto “. Sono piuttosto scoraggiata. Mi rendo conto che l’aiuto che occorre deve venire da un’altra parte, e mi trovo, quasi senza pensarci, a raccomandare quel bebè a Maria Chiara Badano (Chiara Luce, la giovane partita per il cielo a 18 anni), di cui si è aperta la causa di beatificazione (vedi Città nuova n. 4/2000, n.d.r). Riprendo il telefono e chiamo una persona amica, a cui mi sono sempre rivolta in casi di necessità. Intanto continuo ad arrovellarmi su cosa poter ancora fare: andare a trovarla, per dirle del centro di aiuto alla vita di cui mi aveva parlato l’amica? Oppure aspettare? Continuo a lambiccarmi il cervello, senza giungere a capo di nulla. D’altronde, dall’ufficio in cui mi trovo, posso fare ben poco. Forse, mi dico, è meglio cercare di far bene il mio lavoro, nella fiducia che un Altro farà il resto. Il giorno seguente, appena tornata a casa dall’ufficio, suona il telefono. Con sorpresa, è la ragazza, che mi dice tutto di un fiato: “Sei davvero disposta ad aiutarmi?”. Poi soggiunge: “Oggi non sono andata all’ospedale per interrompere la gravidanza, ma dall’endocrinologo. Mi ha sosti- tuito la terapia, dicendomi che non ci saranno problemi per il bambino”. Parliamo a lungo. Le difficoltà, che prima parevano insormontabili, sembrano adesso più leggere. Mi dice che anche la mamma ha cambiato parere, ed ora è disposta ad accogliere il bambino. Vediamo le necessità immediate a cui provvedere: un’alimentazione sana per lei, l’occorrente per il neonato, ma soprattutto il calore e l’affetto di tante persone amiche. Quando chiudo il telefono, rivolgo dal profondo dell’anima un “grazie” a Chiara Luce. Ora le ricordo ogni giorno che, in un certo senso, è lei la “madrina” del piccolo che nascerà tra poco. Mentre noi da quaggiù certamente faremo tutta la nostra parte, prendendoci cura di tutti e due. Quella ragazza che tutti sfuggivano Ero molto stanca quella sera, dopo aver ascoltato decine di persone, extracomunitari e no, che si rivolgevano alla sede della Caritas diocesana dove da anni presto servizio di volontariato. Noto quella ragazza minuta, ancora giovane, che trascina camminando la gamba destra. Sul volto e sulle labbra presenta sfoghi vistosi. Giunto il suo turno, con tracotanza e disperazione sbotta: “Mi hanno detto che tu riesci a trovare lavoro… ho fame, non ho soldi”. Mi fermo ad ascoltarla, cacciando via la tentazione di rimandarla, dicendole che è impossibile trovarle lavoro in quelle condizioni. Cerco di immergermi nella realtà complessa che mi si presenta, consapevole che inevitabilmente sarebbe diventata mia. Mi racconta in breve la sua storia. Ha 32 anni (anche se ne dimostra molti di più) ed è tossicodipendente, affetta da Aids. È separata dal marito ed ha una figlia di 11 anni, che vive con il papà in un’altra città. L’ascolto, facendo spazio dentro di me al suo dolore. Penso alle umiliazioni che deve aver subìto, tra cui quella di essere stata cacciata via da casa dai genitori per timore del contagio… Ma non è per compassione che sento di volerle già bene. Ma perché, malgrado tutto, lei ha ancora voglia di vivere, di lottare. Cerco intanto di provvedere per quanto mi è possibile. Finito il colloquio, le lascio il mio numero di telefono: in caso di necessità, o se vuole parlare con qualcuno, sa dove trovarmi. Da allora ci siamo incontrate spesso. Le ho procurato cibo, qualche soldo. Ma ciò di cui sentiva maggior bisogno era sentirsi accettata come persona. Una sera mi telefona dicendomi di aspettare un bambino. Vado subito a trovarla, e mi dice che, malgrado le tante perplessità ad avere un figlio, ha deciso di proseguire la gravidanza. “Nella vita non ho fatto nulla di buono – spiega -, ma ora mi si è presentata la possibilità di cambiare vita “. Ci ritroviamo l’una nella braccia dell’altra: mai il suo volto deturpato mi era parso così bello. “Sei sicura che Dio esiste?”, mi chiede. Le rispondo che anche Gesù si è sentito abbandonato, e che ci ama immensamente, con profonda misericordia. “Fidati di lui – le dico – e vedrai”. Nelle settimane successive passo con lei tanto tempo. Deve fare molte analisi, visite specialistiche. Vive in un garage senza servizi; con l’aiuto di un’assistente sociale Cecilia viene ricoverata al reparto di malattie infettive dell’ospedale. Mi telefona subito, chiedendomi un pigiama e l’occorrente per il ricovero. La fiducia è tale che un giorno mi chiede di fare da madrina al suo bambino, giacché vuole battezzarlo. Naturalmente, dico subito di sì, e con grande gioia, perché veramente voglio bene a Cecilia, che fino a poco tempo prima era per me una sconosciuta. Così quella ragazza che tutti sfuggivano è entrata nella mia vita.

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