Maria Stuarda

Si deve sempre ammetterlo. Una musica, per quanto ispirata, se non trova un interprete adeguato, rischia di perdere fascino. Per fortuna, Mariella Devia ha dato voce e anima ad una delle eroine donizettiane più pure e drammatiche. Sorvoliamo sui risvolti storici reali della vicenda – l’opera non lo è né lo vuole essere -: il tema di fondo è lo scontro tra due donne e l’infelicità che ne consegue, anno il 1834. Prende quota lentamente l’ispirazione. Rossini e Bellini sono ben presenti nella struttura chiusa di aria – tempo di mezzo – cabaletta: ma Donizetti il fuoco lo fa ardere via via, così che la sua vena propria – l’elegia – anche nei tratti più irruenti – che ancora si continuano a chiamare, chissà perché, preverdiani – si distende con quel velo malinconico che stempera il lato funereo sotteso alla vena donizettiana in palpitazioni melodiche ad alta gradualità. Cosicché i momenti di scontro canoro fra le due protagoniste – Maria ed Elisabetta – spiccano ad un certo momento il volo in un susseguirsi di stati d’animo alati, eterei, di vagheggiamento, dopo concertati sulfurei. L’orchestra donizettiana, colorata fra dolcezza e passione, mai inutile, sostiene un canto in cui la melodia, ora virtuosa ora tenera, è la sovrana: l’infelicità della vittima – sempre donna, in Donizetti – è sublimata da questa bellezza. Che è poi quello che ci resta. Mariella Devia vera protagonista, osannata giustamente per i filati lievissimi, i fiati inesauribili, le agilità, che sorreggono una resa scenica credibile e calda, si è trovata con un cast diseguale, fra l’Elisabetta di Enkelejda Shkosa di gran voce ma poco fine, il morbido basso Enrico Turco (Talbot) e il Roberto, purtroppo non adatto, di Claudio Di Segni L’orchestra sempre buona diretta da un Riccardo Frizza sensibile a Donizetti e puntiglioso, di sicuro avvenire – malgrado tendesse a coprire le voci – e l’allestimento da Bergamo con la regia attenta di Francesco Esposito e le scene di Italo Grassi – un’enorme inferriata sospesa come una spada di Damocle – hanno reso giustizia ad un’opera veramente romantica: di quelle che sarebbe utile riascoltare un poco più spesso. I GRANDI CONCERTI Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Mettete insieme un direttore preciso e morbido come Jeffrey Tate, un pianista focoso come Lars Vogt, 36 anni, e il Concerto in la min. di Robert Schumann – 150 anni dalla morte -: è il romanticismo, ombroso, passionale, sognante, fantasioso. Vogt calca la tastiera con sussulti, Tate lo asseconda con la misura che gli è tipica, l’orchestra vi collabora convinta. Risultato? Una di quelle esecuzioni da ricordare. Tate poi si sofferma sulla Sesta Sinfonia di Sibelius, una transverberazione oscillante tra dissonanze angosciose, asimmetrie ritmiche e liriche di un sentimento in crisi. Fra il dolce Canto notturno per coro e orchestra di Schumann e la Serenade di Ralph Vaugham- Williams, gradevolissima, resta impresso tuttavia il duetto Vogt-Tate come un esempio di felice sintesi interpretativa.

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