Si stima siano circa 300 milioni le persone che nel mondo convivono con una malattia rara, di cui 30 milioni in Europa e 2 in Italia; ma parliamo appunto di stime perché c’è una percentuale rilevante di pazienti – il 6% documentato, ma si ritiene che la percentuale reale sia quantomeno a doppia cifra – che una diagnosi non arriva affatto ad averla. Questo significa non solo “sfuggire” alle statistiche, che per questi pazienti sarebbe il male minore; ma soprattutto finire per “soffrire”, a parità di sintomi, ancor più di chi una diagnosi ce l’ha.
Questo perché non poter dare un nome alla propria patologia significa non sapere quali farmaci assumere per curarla (o peggio, assumere quelli sbagliati che si rivelano dannosi); venire “rimbalzati” da un ospedale all’altro senza una risposta, spendendo tempo e denaro; non ricevere un codice di esenzione per la propria patologia (per quanto esista un codice, R99, dedicato alle malattie rare non diagnosticate: ma anche questa è una diagnosi essa stessa, e non sempre arriva); non vedersi riconosciuta l’invalidità civile, perché questa presuppone che ci sia appunto una diagnosi; non trovare medici specialisti in grado di prendersi carico della propria situazione, perché la propria situazione non si sa bene quale sia.
Se e quando la diagnosi arriva, poi, c’è solo da sperare che non sia ormai troppo tardi; e che la famiglia sia ancora in grado di sostenere il paziente nel suo percorso.
Per questo già da anni ci si sta muovendo, e l’Italia è all’avanguardia in questo senso: all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è attivo un ambulatorio dedicato a questi pazienti, e dal 2014 sono stati identificati circa 100 nuovi geni malattia.
Proprio il Bambino Gesù è coordinatore della nascente “Rete Italiana delle Malattie Rare Non Diagnosticate”, un gruppo di ambulatori dedicati alla presa in carico dei pazienti che è stato presentato lo scorso 25 febbraio durante una tavola rotonda sul tema, promossa dal Bambino Gesù stesso e Orphanet-Italia, in collaborazione con la Fondazione Hopen Onlus e il Comitato IMI – I Malati Invisibili Onlus, e con la media partnership di OMaR – Osservatorio Malattie Rare.

La Rete Italiana delle malattie rare non diagnosticate (Foto ufficio stampa O.Ma.R.)
La prima cosa che balza all’occhio guardando la cartina geografica che riporta la distribuzione dei 24 centri che aderiscono alla rete è che, per quanto si registri una concentrazione maggiore al centro-nord, la distribuzione è comunque tale da assicurare la copertura di tutto il territorio nazionale, Isole comprese: dettaglio non da poco, in tempi in cui il “nomadismo sanitario” è una questione di rilievo nel Paese.
Il professor Bruno Dallapiccola, responsabile della ricerca sulle malattie rare del Bambino Gesù, nel presentare la Rete ha fatto riferimento a come questa sia parte dell’attuazione Carta dei diritti dei pazienti con malattie non diagnosticate, varata nel 2013; e ha sottolineato come «lavorare in rete permetterà di condividere metodologie e di armonizzare gli interventi e i protocolli; creare percorsi sociali e sanitari, offrendo valutazioni cliniche multidisciplinari e indagini avanzate strumentali e di laboratorio; proporre diagnosi cliniche funzionali, definendo le aree di maggiore fragilità e di massima attenzione, per offrire interventi clinici e terapeutici in grado di garantire la migliore qualità di vita».
A questa rete si aggiungono poi eventuali reti regionali, per le malattie rare, oltre a quelle europee e internazionali.
Il prof. Dallapiccola, insieme al direttore dell’unità operativa di genetica medica dott. Andrea Bartuli, ha presentato il lavoro del proprio ospedale, che nel solo 2024 ha seguito 18.326 pazienti degli oltre 62.000 iscritti alla Rete regionale del Lazio. Un lavoro importante se si pensa che, come ricordato dai due medici, si stima che circa un terzo delle diagnosi iniziali siano sbagliate. Preziose in questo senso sono le possibilità offerte oggi dall’analisi genomica, presentata dal prof. Andrea Novelli, che guida l’unità di ricerca di Citogenomica Traslazionale.
Ma hanno portato le proprie esperienze non soltanto grandi centri – come il Gaslini e il San Martino di Genova, o la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo – ma anche realtà più piccole, come l’azienda sanitaria Lariana nel comasco, dove sono attivi sul territorio ambulatori che prendono in carico questi pazienti e le loro famiglie accompagnandoli nel quotidiano.
È poi emersa l’importanza di una presa in carico integrale, anche psicologica, del paziente e della famiglia; e del curare bene il delicato passaggio all’età adulta, perché se la maggior parte dei pazienti in questa condizione sono bambini, non mancano coloro che ormai non fanno più riferimento al pediatra – che però è molto spesso l’unico ad avere una formazione adeguata.
Della condizione degli adulti ha parlato in particolare Deborah Capanna, presidente del Comitato IMI; mentre Federico Maspes, della Fondazione Hopen, ha rivolto un appello affinché quelli che lui ha definito “i treni ad alta velocità”, ossia le grandi fondazioni che fanno ricerca, non “lascino a terra” questi malati.
Interessante, da ultimo, un’osservazione fatta dal dott. Mattia Gentile, professore di Genetica medica dell’Università di Bari e direttore del laboratorio di Genetica medica dell’Ospedale Di Venere del capoluogo pugliese: se per fare ricerca sulle malattie rare – e per quelle non diagnosticate in particolare – è necessario investire sulla digitalizzazione, per poter gestire collettivamente grandi moli di dati che consentano di arrivare ad una risposta per queste persone, ancor più importante è investire sulla sicurezza informatica: per il solo screening genomico neonatale, attualmente portato avanti in Puglia, sono infatti necessari dai 20 ai 30 euro a paziente solo per questo.
Se la tecnologia è ciò che in molti casi consente alla ricerca di progredire, dunque, si tratta di un investimento che non può essere eluso.
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