Madre Teresa e la (vera) fede

Sarò assente dal Paradiso per accendere la luce a coloro che, sulla terra, vivono nell’oscurità.
Madre Teresa di Calcutta

Quando uscì il libro intimo (ora in edizione economica, Sii la mia luce, Rizzoli) della piccola suora albanese-indiana, in cui veniva documentata la sua lunga prova della fede – quasi cinquant’anni in cui Madre Teresa non “sentì” nulla, salvo in rarissimi momenti, del suo rapporto con Dio –, i laicisti credettero di capire: ecco, lei aveva perso la fede.

Ciò, oltre ogni inutile e fuorviante polemica, è molto interessante e degno di essere capito a fondo: perché quella che per la suora dei moribondi era la continuazione più ardua e pura del cammino (come per san Giovanni della Croce, Chiara Lubich e tanti altri grandi mistici antichi e moderni), per i non credenti laicisti, che per fortuna non sono affatto tutti i non credenti, era invece lo sbarramento e la fine del cammino stesso.

Come stanno veramente le cose? Bisogna anzitutto capire ciò che la fede non è: non è un sentimento (il “sentire” la fede); un palliativo; un’abitudine; un rifugio psicologico. Queste cose certamente la fede non è. Anzi, più è nuda e cruda e povera e tentata di non credere, più è vera fede; invece: più si diletta di stati d’animo – «Quasi tutti gli stati d’animo sono frutto del nostro amor proprio», disse il gigante della fede, san Francesco di Sales –, di conforti costruiti dal basso, di calcoli o alibi spirituali, o, peggio, di complessi di superiorità verso i non credenti, più diventa pericolosamente qualcosa di molto lontano da Cristo, che tra incarnazione, morte e risurrezione, come vero uomo è vissuto, morto e risorto, sempre e sempre più in pura e nuda fede. Dunque la fede è, per sua natura, oscura.

 

Ma facciamo parlare lei, la presunta “perdente la fede”, che ogni mattina pregava per ore il Dio che non “sentiva”, per avere la forza di vivere la giornata tra miserie e malattie, fetore e morte. E facciamola parlare nella precisa scansione delle sue tappe biografiche e spirituali.

Suora a diciotto anni nel 1928 in una congregazione soprattutto di maestre, già a cinque anni aveva sentito «l’amore per le anime», e a dodici la vocazione ad aiutare i poveri, che era divenuta, all’entrata in convento, vocazione missionaria. Si trovò così nel torrido Bengala per la formazione e a Calcutta per insegnare a ragazze di buona famiglia, e lo fece per vent’anni felicemente.

 

Ma già nel 1937, al momento della professione solenne, cominciò a entrare in lei una “oscurità” che, pur rivelandosi una classica e progressiva prova della fede, era, molto di più, la preparazione alla “chiamata nella chiamata”. Avrebbe lasciato l’istituto (che amava moltissimo, notiamolo), per servire una precisa voce che le chiedeva di donarsi pienamente a Cristo identificato nei più poveri, negli ultimi. La “seconda chiamata” era per «saziare la sete di Gesù Cristo sulla Croce per amore e per le anime». Come spiegò poi alle sue Suore della Carità, le donne in sari bianco orlato di azzurro che tutti conosciamo, «fino a quando non saprete nel profondo che Gesù ha sete di voi, non potrete cominciare a sapere chi lui vuole essere per voi. O chi lui vuole che siate per lui».

Così la voce le fece lasciare dolorosamente il passato e il presente dicendole: «Vieni, vieni, portami nei “buchi” dei poveri. Vieni, sii la mia luce»; e poi: «Non mi aiuteresti? Rifiuterai?».

La voce voleva «suore indiane rivestite della povertà della Croce» (e in seguito non solo indiane), capaci di sopportare l’enorme fatica di strappare i bambini abbandonati e miserabili all’abuso degli adulti e all’analfabetismo, i poveri alla morte per fame, i moribondi alla disperazione. Suor Teresa, ora chiamata “Madre”, stava male a sentirsi chiamare fondatrice di un’opera di Dio per la quale si sentiva del tutto inadeguata, e intanto portava frutti spettacolari pur nel nascondimento: vocazioni, conversioni, salvezza fisica e soprattutto spirituale. A chi le obiettava che avrebbero dovuto pensarci le istituzioni rispondeva che queste «can’t give love», non possono dare l’amore, di Cristo, ovviamente.

 

Ma i frutti maturano a partire dalla radice, che è buia e all’oscuro dei suoi fiori che fruttificheranno. Madre Teresa sperimentava, ben oltre le tentazioni, contestazioni, opposizioni, diffamazioni, che sono ovvi ostacoli all’opera di Dio, l’impressionante progressione di una oscurità che dobbiamo ben capire per comprendere la sua originalità nella Chiesa e nella storia del XX secolo.

È ben nota la “notte oscura” di san Giovanni della Croce, ma lei non volle mai chiamarla così, non solo per umiltà ma perché percepiva la peculiarità della sua nuova vocazione a salvare non sé stessa ma i più disperati. Per fare «nei bassifondi la parte di Maria», per «morire ogni giorno» nel condurre a suo figlio quell’umanità diseredata, doveva vedere distrutto – lo capì sempre meglio – il proprio io, tutte le sue conquiste e la sua già bellissima unione con Dio. Perché? In lettere e confidenze a superiori e confessori emergono, da lei stessa presentite, sofferenze particolari, sconosciute «torture di solitudine», «una tale terribile oscurità dentro di me, come se tutto fosse morto», e la certezza sempre più cruda di essere abbandonata da Dio: «Non c’è Dio in me. (…) Lui non mi vuole, lui non è qui»; mentre cresce spaventosamente proprio il desiderio di Dio.

Madre Teresa capisce che è lui, Dio, che la sta lavorando perché porti più frutto in sé e nell’Opera, e però continuamente dimentica ciò che ha già capito: «Quale contraddizione c’è nella mia anima». Teme di «rifiutare Dio», chiede preghiere per non farlo.

E qui dobbiamo fissare il preciso fotogramma spirituale di quella che i grandi Padri della Chiesa hanno chiamato “divinizzazione” dell’umano. Suor Teresa si accorge di «non ricercare più» sé stessa, di voler conservare solo due parole: “Sì” e “Sorriso”. «Se mai diventerò una santa – conclude con lucida esattezza –, sarò di sicuro una santa dell’oscurità. Sarò continuamente assente dal Paradiso per accendere la luce a coloro che, sulla terra, vivono nell’oscurità».

 

La “divinizzazione” non è un’illusione né una passeggiata: «Ma quanto spesso ci guardiamo dentro e vediamo veramente solo Gesù in noi?». Lo dice una donna che diagnostica a sé stessa: «Essere innamorata eppure non amare, vivere di fede eppure non credere». Questa è la logica dei santi, ai quali, per farli liberi e amanti come lui, Dio non lascia una briciola di percezione di sé stessi; perché, se si vedessero come ancora sono nella condizione mortale, si dispererebbero, mentre invece l’oscurità dolorosa li innalza in una luce inaccessibile che li redime e, col loro stesso aiuto, redime i più bisognosi di luce. Il segreto è questo: non ci si può redimere con la propria luce, ma solo, nell’oscurità di sé, con la luce di Dio.

Perché, infatti, tante prediche e tante altre parole cristiane non danno frutto? Madre Teresa sembra rispondere fino in fondo a questa domanda. Lei che ha avuto un’oscurità paragonabile, dice, all’inferno, ha anche dichiarato, senza incoerenza: «Calcutta è dappertutto» e «Io non ho mai avuto dubbi».

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons