L’università pubblica chiude?

Aprire sconvolgendo la didattica o protestare, negando agli studenti il diritto allo studio: il dilemma di Vincenzo Nesi.
Università Scuola Studenti

Siamo già ad ottobre inoltrato, ma le lezioni alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’università La Sapienza di Roma non sono ancora iniziate. Gli studenti sono a spasso. È una situazione drammatica e si vivono giorni decisivi in questo come in tanti altri atenei italiani. Ne parliamo con Vincenzo Nesi, direttore del Dipartimento di matematica.

 

Perché non aprite?

«Siamo di fronte ad una scelta: o partire con le risorse insufficienti che abbiamo o, attraverso il rinvio, verificare se possiamo reperirne altre, che per noi sono necessarie e indispensabili. Fino all’anno scorso l’offerta formativa si basava sul lavoro “gratuito” dei ricercatori, i quali invece per contratto dovrebbero fare solo ricerca, senza insegnare. Con la loro protesta stanno semplicemente applicando alla lettera il loro contratto. D’altra parte, i professori di ruolo che lavorano nel mio  dipartimento non bastano per mantenere un’offerta accettabile: abbiamo la necessità dell’aiuto dei ricercatori».

 

Ma perché si attengono alle loro mansioni alla lettera?

«Premetto che in Italia quando ci sono queste proteste c’è sempre il rischio che il rimedio sia peggiore del male, con ricorsi ad ope legis più o meno mascherate. Ma è anche vero che finché i ricercatori verranno giudicati (e pagati) sempre e soltanto per la loro attività di ricerca, è giusto che si dedichino a questa e non alla didattica, anche se a moltissimi di loro fa piacere insegnare».

 

Di questo passo cosa succederà nei prossimi anni?

«Probabilmente la situazione peggiorerà ancora. Per legge ogni dieci professori che se ne vanno, uno solo entra. Ogni anno quindi sarà peggio. Quando uno studente si iscrive all’università gli dobbiamo garantire almeno tre anni di studio, ma siamo tutti consapevoli che in queste condizioni, con la legge vigente, ci dovrà essere un drammatico taglio del numero delle matricole ammesse all’università. Per rispettare i requisiti minimi, già quest’anno dovremmo espellere un terzo dei nostri studenti».

 

Alla fine chi ci rimette sono sempre loro. Ma non hanno diritti?

«Gli studenti hanno il diritto allo studio, come sancito dalla Costituzione. Ma quando viene da me un genitore e protesta, gli spiego che con le sue tasse paga un decimo dei costi. Il resto deve pagarlo lo Stato, altrimenti lo studente dovrebbe pagare 25 mila euro all’anno. Ma se lo Stato non fa la sua parte, chi avvisa la gente che fra un po’ dovremo chiudere l’università pubblica e farla diventare università di élite?».

 

Molti rettori dicono che la riforma Gelmini va approvata alla svelta per salvare l’università…

«Diciamo che i rettori con questa riforma avranno molto più potere. È sicuramente necessaria ed urgente una buona legge attraverso la quale i cittadini possano chiedere al mondo accademico di rispondere delle scelte fatte, sanzionando i comportamenti scorretti o autoreferenziali e premiando quelli virtuosi. I lati positivi ci sono nella riforma, per esempio il ruolo centrale dei dipartimenti rispetto alle facoltà o il tentativo di mettere un po’ d’ordine.

«Ma i lati negativi sono molti di più, soprattutto perché si vuole imporre un modello unico a tutte le università, non tenendo conto delle diversità. Alcune università, come La Sapienza, hanno più di cento mila studenti, altre ne hanno quattro mila. Come può funzionare ed essere ottimale un solo modello organizzativo per tutti? Per di più, se la riforma verrà approvata, per farla partire dovranno essere definiti ben 54 regolamenti, mentre stiamo ancora aspettando i regolamenti della precedente riforma Moratti! Saremo seppelliti di burocrazia».

 

Per concludere, la vostra facoltà aprirà quest’anno o no?

«Quando abbiamo deciso di rinviare l’apertura di tre settimane, ho passato un weekend senza dormire. Siamo perfettamente consapevoli ed estremamente rattristati per il disagio che stiamo causando agli studenti. Se partiremo, probabilmente ci saranno classi da 400 studenti con un solo docente: un effetto devastante sulla didattica e la formazione dei ragazzi. Ammesso che riusciamo a trovare aule dove farli entrare.

«Questo è il dilemma. Una scelta terribile. Basterebbe che il governo si impegnasse, magari in un certo numero di anni, a portare l’investimento per la scuola e l’università a livelli degni di un Paese come il nostro. Quando fanno i concorsi in Francia, al Cnrs, su dieci posti disponibili i primi cinque sono vinti da italiani. Questo significa che tutto il nostro lavoro di formazione lo regaliamo ad un altro Paese».

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