L’ultimo tunnel del “cabezon”

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L’altra metà di Sivori era morta giusto un anno fa quando se n’era andato John Charles, il gigante buono con cui Omar aveva formato quella coppia immarcabile, foraggiata dai palloni di Boniperti, che fece grande la Juventus a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta: tre scudetti, tre Coppe Italia. Diversissimi in tutto eppure complementari, complici, alla fine amici. Il gallese era un lavoratore instancabile, l’argentino si alzava dopo mezzogiorno. Charles era tutto potenza, muscoli, elevazione, Sivori era virtuosismi, magia, estro. Omar era un atipico, ma di immensa classe: la sola vera lacuna di cui soffriva era l’acrobazia, ma avendo vicino John ai più utili schemi della squadra non mancava nulla. John era la correttezza fatta persona, mai un’espulsione, Omar aveva imparato a giocare a calcio per strada e della strada aveva imparato i trucchi e l’animosità caliente, pagandola con oltre 30 giornate di squalifica in 11 anni di campionato italiano. L’amico John arrivò a schiaffeggiarlo durante una partita per fermarne l’irruenza: Omar si piegò docile. A provocare gli avversari era il suo atteggiamento in campo: spassoso ed istrione per il pubblico, diabolico per gli avversari ai quali usava infliggere tunnel irridenti. La Juve l’aveva acquistato dal River Plate per 160 milioni di lire, cifra considerevole con la quale gli argentini ultimarono lo stadio. Nel River, Omar era cresciuto conquistando gloria e scudetti con la grinta di un angel con la cara sucia (angelo dalla faccia sporca), come venivano chiamati lui, Angelillo e Maschio in Argentina. Tutti e tre, come Di Stefano, si erano laureati all’università della strada: Maschio era un centrocampista portato alla regia, Angelillo un goleador travestito da ballerino di tango, con quel filo di baffi e la scriminatura impeccabile, Sivori, el cabezon con la testa grossa ed il ciuffo, era un fantasista per vocazione e provocazione. Il calcio era sfida, sberleffo: giocava con i calzettoni abbassati e le gambe nude, senza parastinchi, quasi un invito ai picchiatori dell’epoca, ai difensori che allora tiravano con i tacchetti una riga fuori dall’area di rigore, promettendo agli attaccanti di spaccare loro una gamba se osavano passarla. Sivori non solo la passava allegramente, ma aveva la fissazione di umiliare l’avversario. Aveva sangue d’artista e di torero: il campo era il palcoscenico dove esibire un talento beffardo e mai ripetitivo, l’arena in cui umiliare il toro, l’avversario, ubriacandolo con la muleta. Non gli bastava superarlo, doveva irriderlo, fargli passare il pallone in mezzo alle gambe, magari aspettarlo per ripetere la beffa, usando il tunnel per rimarcare la differenza fra la sua nobiltà pallonara ed i comuni mortali. Il che faceva infuriare le sue vittime, gli procurava calcioni terribili, gambe blu e risse a ripetizione. Per allestire la sua corrida voleva da Boniperti la palla sul piede, da fermo, non il lancio in profondità come amava Charles. Da fermo, un po’ come Cassano adesso, ci pensava lui a trasformarla in un fuoco d’artificio. Tutti i tiri possibili figuravano nel suo repertorio: una volta segnò in rovesciata disteso per terra in area. Aveva solo il sinistro, ma lo usava come un grande, ma delicato pennello che al pallone sapeva dare traiettorie impensate. Sivori era un individualista narcisisticamente innamorato della sua straripante bravura. La usava spesso più per divertire sé stesso ed il pubblico che per sacrificarla alle necessità della squadra. Genio e sregolatezza, col pallone faceva quello che voleva, vezzeggiandolo come il gatto fa col gomitolo. Se Omar si fosse allenato sarebbe stato il più grande dicono ancora di lui i suoi allenatori. L’unico allenamento che amava era tirare in porta. Metteva trenta palloni a venti metri dalla porta annunciando a quale incrocio ne avrebbe mandato ognuno: non falliva mai. Per il resto, alla fatica preferiva il poker notturno, il whisky e le sigarette. Non da questo nacquero i dissapori con la Juve, ma dall’arrivo di Heriberto Herrera come allenatore. Il calcio era cambiato, diventava essenziale accompagnare la tecnica con una buona prestazione fisica. Non si poteva più giocare da fermi, aspettando il pallone: dovevano correre tutti, compresi i campioni. La filosofia di Heriberto, dimostratasi giusta, suonava per Omar come una bestemmia: C’è Emoli che corre, perché dovrei farlo anch’io? Se no lui che ci sta a fare? . Non gli andava di fare il gregario ed indusse Umberto Agnelli, giovane presidente, coetaneo ed amico, a cederlo al Napoli, dove avrebbero saputo apprezzare i suoi virtuosismi. Ma, si sa, la vendetta ha la memoria lunga: dopo il gol di Altafini che beffò la Juve al San Paolo, tornò a centrocampo e tirò il pallone addosso ad Heriberto, non volgarmente, con forza, ma con un tocchetto leggero, da gatto. Ha chiuso i suoi giorni, carico di ricordi, lì dove aveva incominciato, nella sua San Nicolas, nella fazenda, chiamata La Juventus, di fronte al Teatro Municipal, dove aveva la sede la sua prima squadra, e al Rio Paranà, isole, lagune, molto verde. Lì aveva fatto ritorno dopo il grave infortunio del ’65; lì aveva pianto il figlio rubatogli a soli 15 anni da un tumore; lì, nella fazenda aveva investito tutti i suoi soldi nell’allevare bestiame. Non durò a fare il commentatore televisivo: Sivori era un hombre vertical ed i suoi giudizi risultarono troppo netti per la prudenza della emittente di Stato. Per allevare calciatori era troppo geniale e particolare, troppo individualista per fare l’allenatore. Lui gli allenatori li faceva impazzire, di felicità o di rabbia, dipende.

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