Lula e un Brasile in bilico

Apochi mesi dalle presidenziali di ottobre, il dibattito intorno alle politiche economiche è l’asse portante di questa campagna elettorale. L’economia brasiliana vive un periodo di fragilità, con un modesto tasso di crescita, elevato indebitamento pubblico e una notevole dipendenza dai capitali esterni. Nel campo sociale le ricette economiche degli ultimi dieci anni hanno lasciato alcune amare eredità: aumento della disoccupazione, deterioramento della sanità pubblica e dell’educazione, maggiori squilibri regionali e la ulteriore crescita della povertà e della violenza, che minacciano di distruggere le istituzioni e le basi stesse della democrazia brasiliana. In questo contesto, per la prima volta Ignacio Lula da Silva sembra avere reali opportunità di vittoria. Competono con lui José Serra, rappresentante dell’attuale governo, e due ex governatori dell’opposizione: Ciro Gomes, del Partito popolare socialista, erede dell’antico Partito comunista brasiliano, e Antony Garotinho, del Partito socialista brasiliano, che conta sull’appoggio massiccio della maggioranza delle chiese evangeliche pentecostali, 26 milioni di fedeli. La maggioranza degli osservatori e degli esponenti politici danno per sicuro il passaggio di Lula al secondo turno, mentre resta incerto il nome del suo antagonista. A metà luglio, l’ex-operaio e leader sindacale raccoglieva quasi il 40 per cento delle intenzioni di voto per il primo turno e risultava ancora vincente al secondo confronto. Il suo attuale vantaggio poggia su due ragioni: è il candidato più conosciuto – partecipa per la quarta volta alle elezioni presidenziali – e beneficia del malcontento per i modesti risultati in campo sociale del governo in carica. Con la politica economica dell’ultimo decennio – improntata alle vincolanti indicazioni del Fondo monetario internazionale – è stato possibile controllare l’inflazione e stabilizzare l’economia, ma con un alto costo sociale e un’esplosione del debito pubblico. Così il paese è stato costretto a dipendere completamente da capitali esterni per equilibrare i propri conti. Inoltre, il Brasile è uno dei paesi con maggiori disuguaglianze: il 20 per cento più ricco detiene il 64,1 per cento del reddito nazionale, mentre al 20 per cento più povero rimane appena il 2,2 per cento della ricchezza totale; e 54 milioni di persone vivono sotto la linea di povertà. La disoccupazione a San Paolo, per esempio, locomotiva del paese, arriva al 20 per cento. E in altre grandi città il livello è lo stesso. L’attività economica ha raggiunto tassi irrisori, tanto che la ricchezza interna prodotta è cresciuto solo dello 0,5 per cento nel 2001. Questo anno, invece, sembra possa sfiorare, secondo le previsioni, l’1,5 o, addirittura, il 2 per cento. Oltre a creare occupazione, il prossimo governo dovrà impegnarsi a varare un’effettiva riforma agraria – i contrasti nel settore sono sempre più drammatici – e ad avviare adeguati programmi nell’ambito della sanità, dell’istruzione e della politica abitativa. Questo sempre che si voglia passare da una politica economica basata sull’equilibrio fiscale, sui mercati finanziari e su un ridotto intervento dello stato, ad una strategia che miri al sostegno sociale e alla distribuzione del reddito, con un’incisiva politica industriale di medio e lungo termine e un maggiore controllo statale sull’economia. A motivo di ciò si sono moltiplicate le candidature di opposizione, maggiormente in sintonia con questa seconda linea di azione. Ad accreditare presso l’opinione pubblica il Partito dei lavoratori di Lula ha contribuito la maturazione politica sia del candidato che del partito. Quest’ultimo, in particolare, ha acquisito ormai un considerevole patrimonio di esperienze amministrative in grandi città e in alcuni stati, abbandonando superate posizioni radicali e dando prova di saper affrontare la complessità di una gestione di governo in un contesto economico non certo favorevole. Da qui, l’appoggio di ambienti sociali ed imprenditoriali prima avversi. A svantaggio di Lula e dell’insieme delle forze dell’opposizione pesa una tradizionale paura nei riguardi del cambiamento e, fondamentalmente, la pressione dei settori più conservatori della classe imprenditoriale, dei mezzi di comunicazione e dei mercati finanziari.Negli ultimi mesi, l’ipotesi di una vittoria di Lula è stata utilizzata per alimentare movimenti finanziari speculativi con alte oscillazioni nella borsa e nel dollaro, mentre è tornata ad incombere come una minaccia la fuga di capitali. Una specie di terrorismo finanziario, chiaramente alimentato dagli operatori e dalle agenzie internazionali che si affrettano a svalutare i titoli brasiliani ogni volta che i candidati di opposizione salgono nei sondaggi. Il magnate George Soros ha categoricamente affermato che se il candidato del governo non vincerà le elezioni, il Brasile si ritroverà nel caos, dando per scontato che i nordamericani possono votare liberamente, ma non i brasiliani. Queste dichiarazioni hanno avuto ampia eco sui grandi mezzi di comunicazione, che tacciono le loro preferenze, e hanno già creato il cosiddetto “effetto Lula” per spiegare qualunque crisi del mercato finanziario. Il Consiglio delle chiese cristiane ha dovuto prendere posizione su questo argomento con un manifesto pubblico, denunciando i tentativi di limitare il libero esercizio di voto per mezzo di tali operazioni. Nonostante ciò, alcuni membri del governo, e perfino qualche direttore della Banca centrale, minacciano, più o meno velatamente, che, se il candidato di governo non si aggiudicherà le elezioni, il Brasile corre il rischio di ripetere la crisi dell’Argentina. Le settimane che precederanno i comizi conclusivi della campagna elettorale diranno se questa strategia avrà raggiunto gli effetti sperati. Ma non ci sono dubbi che subordinare la politica alla logica dei mercati riduce le libertà democratiche. Alcuni leader della classe imprenditoriale sono arrivati a proporre che tutti i candidati, in caso di elezione, si impegnino a rispettare le regole stabilite, senza pregiudicare il mercato finanziario. È come stabilire che tutti i gruppi politici devono avere gli stessi programmi e linee comuni di azione. Poche cose sembrano necessarie in Brasile ed in America Latina quanto una salutare alternanza al potere, per promuovere vere e profonde riforme strutturali.

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