L’Osservatore Romano, voce degli ultimi

Intervista ad Andrea Monda, nuovo direttore del quotidiano vaticano

Da dicembre 2018 Andrea Monda è il direttore de L’Osservatore Romano, dopo che per 18 anni è stato docente di religione nella scuola. Per TV2000 conduce da tre anni il programma Buongiorno professore. È autore di diversi libri, l’ultimo dei quali è Raccontare Dio oggi (Città Nuova). Nel 2018 ha coordinato il lavoro di scrittura, realizzato da alcuni dei suoi alunni ed ex alunni, delle meditazioni per la Via crucis presieduta da papa Francesco.

Come ha accolto la notizia della nomina a direttore de L’Osservatore Romano?
La nomina mi ha colto di sorpresa. Negli ultimi 18 anni ho insegnato religione a scuola, senza poter immaginare che la carriera scolastica avrebbe potuto portarmi direttamente alla direzione di un giornale, e di un giornale così particolare come L’Osservatore Romano. Ho preso la nomina con spirito di servizio, lo stesso spirito di servizio che mi aveva portato a esercitare il ruolo di insegnante di religione a scuola.

Come vorrebbe impostare il giornale?
Stando a scuola ho imparato che i giovani non hanno bisogno di qualcuno che dica loro qualcosa, ma che si metta in ascolto. Questo potrebbe sembrare strano per l’insegnamento, in fondo un professore è uno che deve parlare… invece ritengo che per una relazione duratura il primo passo sia l’ascolto. È una dimensione che deve mantenersi sempre accesa, sempre viva. Quindi, nel momento di diventare direttore de L’Osservatore Romano ho pensato che non vorrei essere solo il direttore che ha qualcosa da dire; mi piacerebbe invece creare un giornale che sia capace di accogliere e trasmettere la voce di chi non ha voce. I giovani, per esempio, non hanno voce. Chi sono oggi gli ultimi, le periferie, come direbbe papa Francesco? Si può creare uno spazio, che può essere anche un giornale, dove riuscire a tirar fuori la voce di questi ultimi? Questo è il primo pensiero che ho maturato, senz’altro difficile da realizzarsi concretamente, però a me piacciono le sfide, altrimenti avrei detto di no alla nomina.

Come si confronta con la sfida della cultura?
Cultura è quanto di più umano esista, in quanto ha a che fare con il “coltivare”. Per chi cerca di vivere la fede cristiana, le parole di riferimento sono quelle dei primi capitoli della Genesi, quando Dio affida il mondo all’uomo chiedendogli di custodirlo e coltivarlo. Queste due azioni danno vita alla cultura. Custodire, cioè salvare il meglio e il bello, e coltivarlo cioè svilupparlo, accrescerlo, altrimenti rimarremmo esseri viventi, ma non esseri umani. Tutto ciò che ci fa rimanere esseri umani, quello che innalza, eleva, sviluppa l’umanità, è cultura. La sfida è quindi quella di rimanere umani, per questo darò molto spazio alla dimensione culturale del quotidiano che sono stato chiamato a dirigere.

Nel libro Raccontare Dio oggi lei afferma: prima l’uomo, poi Dio. Perché?
Perché questo è il cuore del Cattolicesimo. La nostra fede è basata sul mistero dell’incarnazione. Se Dio ha scelto di farsi uomo e di incarnarsi vuol dire che ha dato la precedenza all’uomo. E anche noi dobbiamo fare lo stesso, partire dell’uomo. Questo si riflette anche nel campo della cultura e dell’educazione: significa muoversi in una direzione che parte dal basso, non che cala dall’alto. Vuol dire che fare cultura, così come educare, significa innanzitutto creare uno spazio di ascolto. Dal basso significa evitare il terribile pericolo dell’astrazione, la salvezza invece risiede nella concretezza. In termini teologici, più che di concretezza bisognerebbe parlare di incarnazione. In pratica, sia ieri come educatore, sia oggi come giornalista, quello che voglio è dare spazio agli uomini, alle singole persone, quindi raccontare le loro storie, perché di storie è fatta la pasta della nostra vita.

Lei parla spesso di mistero. Per lei Dio è uguale a mistero: cosa significa?
Mistero vuol dire che l’uomo deve avere un approccio umile rispetto a tutto ciò che esiste. Come primo passo dovrebbe partire con il “non so”. Questa semplice espressione, di due paroline, “non so”, esprime la salvezza e la base della convivenza umana. Infatti quando l’uomo comincia a dire «Io so tutto, io posso fare tutto», subito le cose si complicano. Il mistero invece ci riconduce alla semplice verità che l’uomo è limitato. Mistero significa che l’uomo intuisce l’esistenza di qualcosa più grande di lui, di cui non può dire so tutto. Gli ebrei questo lo esprimono dicendo, in maniera sottile e interessante, che il nome di Dio è impronunciabile. Adamo infatti dà nome a tutte le cose, ma non a Dio. L’uomo non possiede Dio, non lo può possedere. È vero, i cristiani chiamano Dio per nome, Abbà, Padre, ma questo vuol dire confidenza filiale, non che l’uomo possiede il mistero di Dio.

A proposito di Dio, lei afferma che il Creatore ha ridotto il suo potere per venire incontro all’uomo…
L’Onnipotente diminuisce la sua potenza per rendere possibile la nostra libertà; forse noi dovremmo fare lo stesso con gli altri. Invece l’uomo non rinuncia mai al potere. Per questo è molto bello il romanzo Il signore degli anelli, che è un inno alla condivisione del proprio potere, mettendolo a servizio degli altri. Nel libro si fa un viaggio per distruggere l’anello, ma nella realtà quotidiana è difficile trovare questo stesso atteggiamento di servizio, che è l’atteggiamento dei santi.

Quindi santità è rinunciare al potere?
Si, rinunciare alla potenza intesa come prepotenza.

L’intervista completa sarà contenuta nel dossier “Padri”, allegato per gli abbonati al numero di marzo della rivista Città Nuova

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