Lo Stato omicida

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In quella testa scissa dal corpo gli occhi sono immobili con le pupille dilatate; per fortuna non guardano, e non hanno nessuna anomalia, nessuna opalescenza cadaverica, non hanno più movimenti; la loro trasparenza è viva, ma la loro fissità è mortale. Tutto ciò può durare parecchi minuti, anche ore nei soggetti sani; la morte non è immediata… Ogni elemento vitale sopravvive alla decapitazione. Non rimane al medico che questa impressione di un’orripilante esperienza, di una vivisezione omicida seguita da un funerale prematuro . Questi brani, estratti ad una comunicazione presentata dai dottori Piedelièvre e Fournier all’Accademia di medicina nel 1956, servirono ad Albert Camus nella sua campagna contro la pena di morte in Francia. La sopravvivenza dei ghigliottinati, a dispetto di quel che pensava l’inventore dello strumento, il dott. Guillotin (che i condannati sarebbero morti all’istante, senza nulla sentire tranne, forse, un lieve senso di fresco sul collo), e il variegato susseguirsi di orrori previsti dal rituale dell’esecuzione, permetteva a Camus di avanzare uno degli argomenti sui quali maggiormente insisteva: se si vuole conservare la pena di morte per il suo carattere di esemplarità, non la si dovrebbe tenere nascosta dentro le prigioni, non si dovrebbe continuare a far credere che essa sia un castigo mite ed immediato, tutto sommato più tollerabile di un cancro; se lo Stato nasconde le esecuzioni capitali, è perché sa di non poter sostenere la ribellione dell’opinione pubblica nel momento in cui tutti potessero guardare in faccia alla realtà; lo Stato difende l’esemplarità della pena senza crederci: In effetti – conclude Camus nel suo Riflessioni sulla ghigliottina, del 1957 – bisogna uccidere pubblicamente, oppure confessare che non ci si sente più autorizzati a uccidere. Se la società giustifica la pena di morte con la necessità dell’esempio, deve giustificare sé stessa favorendo la necessaria pubblicità. Una filosofia della forca Era questo il nome che Arthur Koestler dava ai ragionamenti a favore della pena capitale. Contemporaneamente a Camus, Koestler, con il suo Riflessioni sull’impiccagione, combatteva la medesima battaglia contro la legge inglese, mettendone in rilievo la rigidità, che vieta al tribunale di tener conto di circostanze che, in tutti gli altri casi, sarebbero considerate come attenuanti e avrebbero il loro peso sull’assegnazione della pena. Koestler accumula argomenti in favore della prudenza che il legislatore e il giudice dovrebbero applicare a questo argomento: parole profetiche, scritte giusto cinquant’anni fa – un bell’anniversario -, che oggi pesano ancor più di allora, dopo che il perfezionamento delle tecniche di rilevazione e di analisi del Dna ha dimostrato, in un numero rilevante di casi di condannati a morte negli Stati Uniti, che essi erano innocenti: la prova, purtroppo, è stata più lenta del boia. La sola possibilità di uccidere un innocente dovrebbe fermare davanti alla pena di morte, e dovrebbe convincere, oggi, a decretare quella moratoria, quella sospensione delle esecuzioni per la quale l’Italia si sta tenacemente battendo. In realtà, nessuno è ancora riuscito a dimostrare che la pena di morte agisca da deterrente e scoraggi dal commettere quei reati più gravi per i quali tale pena, nei Paesi che la ammettono, è applicata. L’unica cosa sicura della pena di morte sono gli effetti devastanti sulla sensibilità sociale: l’esecuzione lancia il messaggio che la vita umana non è intoccabile, che, in certe condizioni, la violenza – anche quella peggiore, che si manifesta troppo spesso proprio nelle modalità delle esecuzioni – è non solo accettata, ma prescritta. Una delle poche lezioni certe e costanti che possiamo trarre dalla storia – scrive Norberto Bobbio nel 1983 in Il dibattito attuale sulla pena di morte – è che violenza chiama violenza, non solo di fatto ma anche, ed è ancora più grave, con tutto il seguito delle giustificazioni etiche, giuridiche, sociologiche che la precedono o la seguono. Non vi è violenza, anche la più efferata, che non sia stata giustificata come risposta, come unica risposta possibile, alla violenza altrui. Terribile più del mero fatto, tremendo, proprio nel senso che fa vacillare l’orientamento verso la verità, è il pensiero che si sviluppa come giustificazione della violenza estrema, e crea le sue scuole, le sue ideologie, le sue palestre. Dalla costatazione che violenza chiama violenza in una catena senza fine – continua Bobbio -, traggo l’argomento più forte contro la pena capitale, forse l’unico per cui valga la pena di battersi: la salvezza dell’umanità, ora più che mai, dipende dall’interruzione di questa catena. L’abolizione della pena di morte non è che un piccolo inizio. Ma grande è il capovolgimento che produce nella pratica e nella concezione stessa del potere dello Stato, raffigurato tradizionalmente come il potere irresistibile. Proprio questo è il punto: la facoltà di infliggere la pena capitale porta a una definizione del potere e, con esso, dello Stato che lo esercita; la domanda intorno alla ammissibilità della pena capitale nasconde, al suo interno, quella sulla natura dello Stato: i cittadini debbono rendersene conto e chiedersi: in quale tipo di Stato vogliamo vivere? Morte e cittadinanza La possibilità e la capacità di infliggere la pena di morte fa parte, secondo Elias Canetti, del tipo paranoico del potente: La morte è sistematicamente tenuta lontana dal potente: egli può e deve inflig- gerla. Può infliggerla tanto spesso quanto gli piace. La condanna capitale che egli pronuncia viene sempre eseguita. È il suggello del suo potere, il quale rimane assoluto soltanto fino a che il suo diritto di infliggere la morte continua ad essere incontestato. Questo tipo paranoico del potente descritto da Canetti mantiene una forte somiglianza con gli Stati moderni che si riservano il diritto di uccidere, nonostante tale diritto venga esercitato non secondo l’arbitrio di un dittatore, ma in casi previsti dalla legge. Un primo aspetto di somiglianza è dato dal fatto che anche la paranoia è un sistema di delirio dotato di coerenza e di una sua logica (una legge), è una psicosi caratterizzata da una fantasia di persecuzione che alimenta un atteggiamento di sospettosità crescente, capace di approntare difese proporzionate all’ansia sviluppata: è un insieme di sintomi che può essere vissuto anche in una dimensione sociale e istituzionale e che produce, come difesa nei confronti del nemico (vero e/o presunto) una legislazione che prevede la pena capitale, cioè una manifestazione di potenza assoluta. E qui sta il secondo aspetto di somiglianza: nello Stato omicida, come nel potente paranoico, rimane inalterata l’importanza della pena di morte per caratterizzare il potere come assoluto. Il potere paranoico può non avere l’apparenza di irrazionalità, anzi; para può essere inteso non soltanto come fuori, come spesso si intende qualificando il paranoico (letteralmente fuori-mente) come pazzo: l’espressione paranoéo, che Platone ha usato nel senso di comprendo male, ammette in sé il significato di un uso della mente, errato e delirante, ma capace di mantenere una sua coerenza nello sviluppo dell’errore, di presentarsi come un pensare accanto al vero, e che per questo può venire confuso col vero, specialmente se affermato con la forza di una pubblica autorità. Questa pseudo-razionalità che giustifica la statualità omicida è estremamente pericolosa, perché reintroduce una assolutezza o irresistibilità del potere anche negli Stati democratici nei quali, proprio a garanzia della libertà dei cittadini, i diversi poteri sono separati. Se non lo fossero, non potremmo parlare di cittadini portatori di sovranità, ma di sudditi privi di ogni facoltà di difesa nei confronti del sovrano. Da questo punto di vista, è importante un’altra osservazione con la quale Canetti continua il discorso sul potente paranoico: Veramente soggetto a lui è dunque solo chi si fa uccidere da lui: oppure, aggiungo di mio, colui che lascia aperta la possibilità di venire ucciso, accettando la pena di morte. È evidente il pericolo di questa sudditanza – nascosta, ma reale – presente anche in Stati democratici: essa limita e mette a repentaglio la piena espressione della cittadinanza; questa infatti, per essere sovrana, deve escludere in linea di principio ogni forma di accettazione di un potere assoluto e irresistibile: o si è cittadini, o si è sudditi. L’analogia che il potere paranoico pretende di costruire col potere di Dio, che, sottolinea Canetti, ha pronunciato una volta per tutte la sentenza capitale per tutti gli uomini, è evidente. E porta come conseguenza una forma di assolutizzazione etica e religiosa dello Stato, di cui si è bene accorto anche Waldemar Molinski: tutte le teorie che attribuiscono allo Stato il diritto per principio di infliggere la pena capitale, prendono le mosse da una comprensione dello Stato, secondo la quale esso deve procurare che l’ordine morale sia assolutamente in vigore e conseguentemente compie un’azione punitiva che è di Dio, poiché esso nelle sue mansioni (parziali) esercita la rappresentanza immediata di Dio. Dunque in ambito cristiano si dovrebbe porre una estrema attenzione nell’attribuire agli Stati il potere di infliggere la pena di morte: così facendo, si avalla una analogia tra potere terreno e potere celeste che attribuisce a Dio esclusivamente i caratteri del sovrano giudice che ha decretato la morte; una immagine di Dio che deforma quella del vero Dio della Rivelazione ebraico-cristiana, il quale non ha decretato la morte (introdotta, invece, dal peccato) e neppure si volge all’uomo col solo volto del potere ma, piuttosto, con quello dell’amore paterno. Nella Rivelazione cristiana, inoltre, è centrale proprio la sconfitta della morte ad opera di Dio, che esprime pienamente l’essenza liberatoria del cristianesimo: Non appena uno si sottrae alla sua sentenza – scrive Canetti – il sovrano è in pericolo. Lo Stato potente-paranoico si inventa un Dio giudice onnipotente e omicida per poterlo, ordinatamente, imitare. E non i comuni cittadini, ma i criminali veri o presunti – i quali, con i loro reati, offrono al potere la possibilità di dare la morte – sono i sudditi più fedeli di questo tipo di Stato. Tutto ciò ci porta vicino a quello che potrebbe essere considerato l’argomento fondamentale contro la pena di morte, dal punto di vista di una cittadinanza matura: noi ci rifiutiamo di infliggere la pena di morte, non per ciò che è il criminale, ma per ciò siamo noi; la pena di morte infatti non dice solo la gravità della colpa del condannato, dice la qualità della vita civile di coloro che lo condannano e uccidono.

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