L’Indonesia di Wilson

Dalla immensa biblioteca del mondo Bob Wilson ha estratto Sureq Galigo, poema epico del sud dell’Indonesia creato nel 1300 dalla tradizione orale del popolo Bugis. E nelle sue mani diventa una partitura visiva e sonora di emozionante perfezione formale. Da sempre, nel suo appropriarsi di ogni genere d’arte, il regista texano trae ispirazione anche dal teatro orientale. In quello ora si immerge totalmente trovandovi una grammatica – per ritualità, estetica, gestualità – a lui consona, messa al servizio dei cinquanta interpreti, fra attori, danzatori e musicisti: tutti indonesiani. In essi, ogni gesto degli occhi e delle mani, le danze e le musiche, diventano la traduzione concreta – in colori, suoni, fruscii – del mistero e del divino. E Wilson li assume, incorniciandoli nella sua creatività visionaria. Con la descrizione della prima era di un regno di discendenti di dèi, si narra la storia della creazione del Mondo Terrestre, e si conclude con la sua purificazione e il suo rinnovamento. Sintetizzato nelle sue 6000 pagine con i protagonisti e le scene più significative, lo spettacolo prende il nome di I La Galigo, -giovane figlio di un dio e della principessa di Cina – e si concentra sulla storia tra un fratello e una sorella discendenti degli dèi del Mondo di Sopra e del Mondo di Sotto. Separati fin dalla nascita per evitare che il loro amore impossibile possa causare sciagure all’umanità, i due gemelli vivranno per sempre lontani. Il loro amore vivrà infine nei loro rispettivi figli quando essi giungeranno come esseri umani nel Mondo di Mezzo. Densissimo per vicende e intrecci, lirico e buffo, lo spettacolo scorre in tre ore come si sfogliasse un libro di immagini d’arte da imprimersi negli occhi. La nitidezza stilizzata delle architetture sceniche, la raffinata illuminotecnica con la trascolorazione di campiture pittoriche, tipiche di Wilson, si fanno materia che definisce gli spazi come orizzonti infiniti. In essi si stagliano uomini e dèi, calandosi dall’alto, sprofondando in basso, navigando su navi create da semplici stoffe, usando oggetti arcaici o dallo stilizzato design. Scorrono piante di paesaggi esotici, animali evocati da costumi, suoni o da lunghe aste alate. Scoppiano guerre, cadono lacrime luminose, si muore e si rinasce. E nel lento trasmigrare di popoli – in apertura di sipario e come epilogo – che nell’ipnotico attraversamento sembrano una moltitudine, si chiude questo affresco epico di un’umanità, ovunque e da sempre dibattuta tra bene e male, tra possesso e rinuncia. Giuseppe Distefano Al Ravenna Festival

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