Il Libano protesta contro i politici

Centinaia di migliaia di persone in piazza nella capitale libanese per manifestare contro la crisi economica e un governo bloccato dalla corruzione, dalle influenze straniere, dal malgoverno e da un sistema politico che nel passato recente ha salvato il Paese dall’esplosione, ma rivelandosi anche una gabbia. Foto di Paolo Cerruti

Elias Canetti, autore del più serio studio sulla nascita dei movimenti popolari e sulla manipolazione delle folle da parte del potere – la sua opera Massa e potere è ancora un punto di riferimento – si sarebbe appassionato vedendo la folla che ieri pomeriggio e sera ha occupato il centro della città di Beirut dopo una notte e una mattinata di proteste e blocchi in tutto il Paese. Impressionante la rapidità della mobilitazione, le strade si sono via via riempite di uomini e donne, soprattutto giovani, in massima parte armati solo di bandiere libanesi (stupendo vessillo, che esteticamente crea effetti straordinari), seppur basata su una esasperazione accumulatasi negli anni grazie alla pazienza del popolo, ma uscita dal vaso per la classica goccia maldestra di qualcuno, in questo caso il ministro delle Comunicazioni che voleva imporre una nuova tassa, addirittura sulle comunicazioni WhatsApp, di cui i libanesi sono consumatori incalliti da anni.

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Il troppo è troppo, basta rimanere ad osservare i politici che fanno i loro affari (qui non c’è nessuna legge sui conflitti di interesse) mentre il Paese soffre di mancanza di dollari (qui c’è la doppia circolazione), mentre i servizi pubblici sono sempre più precari (acqua, elettricità, internet…), mentre la svalutazione della lira è evidente anche ai bambini tranne ai ministri del governo Hariri, mentre una parte del territorio continua a non essere sotto il controllo dell’esercito nazionale ma degli Hezbollah, mentre… mentre…

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Di ragioni per scendere in piazza ce n’erano a bizzeffe, e la gente è scesa. Non il 5-7% di ricchissimi, che vivono delle fortune familiari e dell’appartenere alla casta politica, ma il 93-95% del Paese, soprattutto la classe media che oggi più soffre per la crisi economica e politica del Paese. Come nel 2005, all’indomani dell’assassinio del premier Rafik Hariri, la folla è in piazza al di là delle confessioni, dei partiti, dei gruppi di appartenenza e di riferimento – si son visti frati francescani a braccetto con imam e muftì sunniti e sciiti –, in particolare nelle sue componenti più giovani, non solo dei teppisti (che pur hanno fatto danni), non solo militanti di certi partiti (i due partiti sciiti, Amal ed Hezbollah erano forse i più rappresentati), ma gente comune, quella che spera «in un Libano libero e indipendente dalle influenze estere, che sa usare le sue risorse e trovare un domani migliore», come mi dice una studentessa dell’università dei gesuiti, greco-ortodossa , che cerca di «lavorare per cacciare gente che sta sperperando il nostro denaro e sta facendoci credere che dobbiamo pagare più tasse mentre intascano milioni su milioni», come invece afferma un giovane studente dell’Université Libanaise, «sunnita non credente» (si, è possibile in Libano).

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Ieri sera il premier Hariri è apparso in televisione, con lo stesso sguardo terrorizzato che aveva nel novembre 2017, quando fu “arrestato” in Arabia Saudita dal principe Mohammad Bin Salman per non chiare vicende politico-finanziarie. Mai dimenticare che Saad Hariri è figlio di Rafik, ammazzato nel 2005: il dramma è rimasto nel suo sguardo. Ebbene, Hariri ha con forza raccontato quel che succede nella politica libanese: quella stessa costituzione che assicura la governabilità, col supporto degli accordi di Taef, avendo creato un sistema “democratico-confessionale” unico al mondo che prevede rigide ripartizioni di seggi e compiti istituzionali, è anche la ragione del blocco attuale, in cui alcuni partiti impediscono le decisioni, perché si lavora in certo senso sull’unanimità e non sulla maggioranza. Hariri ha elencato quello che ha cercato di fare in questi anni, e ha lasciato intendere che ad ogni decisione qualcuno dei partner di governo ha cercato di trarre il vantaggio più largo possibile, rallentando o bloccando le decisioni più attese dalla popolazione, come quella sull’elettricità (che ancora va a singhiozzo), delle immondizie (che vengono sversate in mare o nelle discariche abusive), della circolazione monetaria che porta ad avere un costo del denaro spaventoso (sul 17-20%).

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Hariri ha dato 72 ore ai partiti per cambiare marcia, per riuscire a trovare una soluzione al blocco, per trasformare un governo bloccato dai veti incrociati in un efficace volano per il bene comune del Paese. Ci riuscirà? Difficile dirlo. Certo è che le giornate di lunedì e martedì saranno particolarmente decisive. E poi c’è il mistero della folla: ci si chiede se avrà la forza morale di scendere ancora in piazza, dopo che ieri sera un’operazione di polizia muscolosa ha liberato le piazze e le vie del centro dalla presenza dei manifestanti. Tre giornate quindi ad alta tensione sono attese qui in Libano: «Anche se non riusciremo a cambiare nulla – mi dice un altro studente dell’Aub –, almeno avremo salvato il nostro onore, la nostra dignità, manifestando la nostra totale insoddisfazione verso una classe politica incapace e corrotta».

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Ingenuità? Probabile. Ma la storia nasce anche da colpi collettivi di ingenuità. Certo è che cambiare i politici non è cosa facile, perché bisognerebbe cambiare soprattutto le regole del gioco, che sono particolarmente complesse e intricate. Il Libano è una polveriera, potrebbe anche esplodere di nuovo. Certo non ad opera della stragrande maggioranza della folla scesa in Piazza dei Martiri, al centro della quale si erge un monumento scolpito da un italiano, Marino Mazzacurati, che ricorda le vittime della lunghissima guerra civile. La statua bronzea è ancora forata da numerosi pallottole. Il presente del Libano può essere capito solo se si tiene conto che il popolo è ancora ferito.

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