Letteratura e ansia di Infinito

Cosa si agita all'interno dell’animo umano? Un dialogo con Giulio Meiattini

Bisogna grattare la crosta per avvicinarsi all’ansia che l’Infinito determina anche in chi ha scarsa dimestichezza con la religione. Ne è convinto il benedettino Giulio Meiattini che, nel volume La discrezione di Dio. Spunti dal Novecento letterario, pubblicato dalle Edizioni La Scala, analizza il tema in alcuni autorevoli autori del Novecento, tra cui Kafka, Ionesco e Buzzati. Una sfida importante, per capire cosa si agita all’interno dell’animo umano. Il risultato è piuttosto interessante.

Che cosa l’ha spinta ad affrontare il rapporto tra la letteratura e Dio nel suo libro La discrezione di Dio?
Innanzitutto il mio desiderio per la lettura maturato fin dall’adolescenza. Poi, nel corso delle superiori, mi sono avvicinato alla filosofia e a temi più speculativi che mi hanno aperto alla letteratura.  Momenti topici di questi interessi sono stati Vittorini e il dibattito con Togliatti sull’intellettuale organico, sviluppato sulla rivista il Politecnico, e la lettura di Dedalus. Ritratto di artista da giovane di James Joyce nel cui finale venivano affrontate questioni di carattere estetico. A questo si è aggiunto il mio cammino di fede che, a diciannove anni, mi ha portato alla vocazione monastica.

Mentre è abbastanza evidente il rapporto di Gilbert Keith Chesterton e John Ronald Reuel Tolkien con il tema dell’Infinito, lo è molto meno in autori come Franz Kafka, Dino Buzzati e Eugène Ionesco.
In Buzzati, in Kafka e altri autori del genere il richiamo al problema metafisico c’è, sia pur in maniera indecifrabile e impenetrabile. In Kafka è una nostalgia continua, quasi un voler credere, ma allo stesso tempo non poter farlo. In Buzzati il tema religioso è, invece, molto più esplicito. Quello che scrivono fa da cornice a un non detto, a qualcosa di non presente che comunque si avverte come mancanza.

Secondo il gesuita Guido Sommavilla, che ne ha parlato in Incognite religiose della letteratura contemporanea, un libro del 1963, in Kafka le pagine sulle porte della legge incastonate nel processo dell’omonima opera sono emblematiche dell’anelito verso l’incognito. Il termine legge per un autore di matrice e appartenenza ebraica, come Kafka, non dice semplicemente il nomos, ma fa riferimento implicito anche alla Torah.

In questi autori il tema dell’Infinito è vissuto maggiormente come assenza o come dissimulazione?
Tutti e due. Se stiamo a Kafka e Buzzati, c’è soprattutto il tormento per qualcosa che va al di là del semplicemente umano. Ne Il castello di Kafka è declinato quasi come una chiamata alla vocazione, un appello che il protagonista delude. Non si arriva all’istanza suprema da cui l’appello viene perché il castello è impenetrabile.  Mentre nel Processo questa istanza ultima è qualcosa che perseguita, non dà pace e incombe fino a diventare quasi una condanna. Questi scrittori vivono, insomma, una condizione di tormento, sofferenza acuta e disperazione. Negli scrittori di oggi questi sentimenti a me sembrano più attenuati. Mentre Kafka e Buzzati prendevano di petto i problemi, oggi mi sembra prevalere più un senso di ripiegamento e di rassegnazione.

Immagino che la scelta degli autori che lei ha considerato nel suo libro non sia casuale. Che cosa lega Kafka a Ionesco, a Chesterton a Tolkien e a Buzzati?
La metamorfosi, un tema presente già nella classicità greca e latina. Pensi alle Metamorfosi di Ovidio. Il racconto La metamorfosi di Kafka, la pièce teatrale Il rinoceronte di Ionesco, alcuni racconti di Buzzati ripropongono il tema della metamorfosi che, tuttora, è di notevole attualità. Pensi alla questione del post-umano o del trans-umanesimo. Esse paventano il rischio della perdita della concezione umanistica dell’uomo, della sua dignità, della sua singolarità nel contesto della natura, allo stesso tempo, il pericolo della regressione a forme subumane. Questi scrittori, e in genere gli artisti, vedono in anticipo quello che potrebbe accadere in un futuro prossimo.

Il loro lavoro è profetico…
Hanno un senso di profezia.

Perché la letteratura oggi parla poco di Dio?
Perché di Dio si parla poco anche al di fuori della letteratura. Bisogna risalire alla prima metà del Novecento per ritrovare autori cristiani di spessore, come François Mauriac o Gertrud von Le Fort.

Ma la letteratura oggi può ancora confrontarsi con il divino? Ha senso questo confronto?
Dipende. Secondo me, sì. Tenga conto, però, che non mi sento attratto da autori attuali, preferisco quelli di provata e consolidata autorevolezza. Ho letto pochissime cose di autori viventi.

Qualche titolo…
La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Il romanzo ha un’intuizione centrale felice, quella dei numeri primi, ma nell’insieme mi è sembrato debole, soprattutto nella parte conclusiva.

Ritiene che nella Formazione catechetica possa avere un ruolo la letteratura?
Sicuramente sì. Proprio io, in un recente corso di esercizi spirituali a un gruppo di sacerdoti, ho utilizzato alcune pagine de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera e di Contro maestro Ciliegia del Card. Giacomo Biffi. Pagine, ovviamente, che si adattavano al tema degli esercizi.

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