Legge elettorale, no della Consulta al referendum della Lega

Alcune considerazione dopo la sentenza della Corte Costituzionale in un Paese dove si son cambiate troppe legge elettorali in base alla convenienza delle forze politiche.
Foto di Jastrow

 

Con decisione preannunciata la sera del 16 gennaio 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta, avanzata da otto Consigli regionali a maggioranza di centro destra, di sottoporre a referendum l’abrogazione di quella parte della legge elettorale che prevede l’assegnazione dei seggi con metodo proporzionale al fine di trasformare l’attuale sistema in un maggioritario puro.

In attesa di leggere le motivazioni, da depositare entro il prossimo 10 febbraio, si possono comunque svolgere tre brevi considerazioni.

In primo luogo, la ragione tecnica. Per consolidatissima giurisprudenza costituzionale, le leggi elettorali possono essere sottoposte a referendum abrogativo ad una condizione: che la legge risultante dal referendum sia immediatamente applicabile. Questo per una ovvia, ma essenziale ragione: quella elettorale è una legge costituzionalmente necessaria, cioè deve essere sempre vigente, perché altrimenti, in caso di scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato, non si potrebbe andare a votare.

Per questo motivo i referendum elettorali non possono essere mai totalmente abrogativi ma sempre manipolativi. I promotori del referendum avevano, quindi, dinanzi un’enorme difficoltà: individuare i collegi elettorali uninominali in cui si sarebbero dovuti assegnare tutti i seggi, e non, come avviene ora, solo una parte.

Per superare tale difficoltà, i promotori avevano fatto ricorso alla delega legislativa prevista nella riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari. Un’operazione ingegnosa ma per la Corte costituzionale ardita (tecnicamente eccessivamente manipolativa) perché non si può usare una delega pensata per uno scopo per uno completamente diverso.

In secondo luogo, il significato politico. Le leggi elettorali dettano le regole del gioco politico. Esse sono influenzate, e a loro volta influenzano il sistema politico. Per questo, al di là dei tecnicismi, la loro modifica è sempre dettata da ragioni politiche. In questo caso l’intento dei promotori era evidente: trasformare il sistema in maggioritario – dove chi prende più voti si aggiudica l’unico seggio in palio nel collegio elettorale – significava favorire i partiti e le coalizioni elettorali più forti, e cioè oggi quella di centro destra a trazione leghista, profittando delle divisioni politiche tra centro sinistra e Movimento 5 stelle. Questi, di contro, consapevoli di tali difficoltà, non a caso spingono all’opposto per un sistema interamente proporzionale (seppur con soglia di sbarramento) che non li costringa ad allearsi prima del voto.

È evidente, quindi, che dietro la scelta sulla legge elettorale si nasconde una diversa visione del funzionamento del sistema parlamentare.

Per i sostenitori del maggioritario le coalizioni tra i partiti devono nascere prima del voto così da permettere agli elettori di scegliere quale debba essere la maggioranza a governare il Paese.

Per i fautori del proporzionale, invece, stante l’attuale quadro politico, non più bi- ma tri- (se non quadri-) polare, gli elettori possono oggi solo, per riprendere una famosa immagine, distribuire le carte (i voti) ai partiti, lasciando loro decidere come giocarle per formare il nuovo governo.

Da qui l’attuale proposta elettorale volta ad introdurre un sistema elettorale interamente proporzionale con soglia di sbarramento al 5% (unica coincidenza con la legge elettorale tedesca, per il resto completamente diversa).

In terzo luogo, le prospettive politiche. Alla luce di quanto sopra, è evidente che la decisione d’inammissibilità della Corte costituzionale sbarra la strada all’ennesimo tentativo di ritornare per via elettorale ad una democrazia parlamentare maggioritaria.

Al contrario di quel che accade nelle altre moderne democrazie europee, nel nostro Paese si è affermata la criticabile abitudine di cambiare troppo spesso leggi elettorali (dal 1993 se ne sono susseguite quattro) a seconda delle contingenze e convenienze politiche del momento.

Così i sostenitori oggi del maggioritario, grazie al vento in poppa, sono gli stessi che nel 2005 l’abolirono, mentre tra i sostenitori del proporzionale vi sono sia quanti un tempo erano per il maggioritario, sia coloro che non vedono contraddizione alcuna tra la difesa della rappresentanza politica e l’eccessiva riduzione del numero dei parlamentari.

Inoltre, è un dato di fatto che, in assenza di riforme istituzionali, tutti i tentativi di assicurare la governabilità per via elettorale si sono sempre infranti dinanzi alla difficoltà di ricondurre in un’ottica bipolare un sistema politico storicamente molto più articolato e frammentato.

Il risultato è che abbiamo avuto coalizioni politiche pre-elettorali che si sono rivelate buone per vincere ma pessime per governare.

Tale osservazione è tanto più vera da quando il sistema politico è diventato tripolare, con l’affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle, ed è oggi segnato da profonde spaccature sociali, economiche e politiche su temi fondamentali (politica estera, euro e Unione europea, immigrazione) per la nostra democrazia se non per la nostra identità costituzionale.

Se a tutto questo si aggiunge la crisi dei partiti, come strumenti di partecipazione politica, mi pare che attardarsi ancora una volta sulla ennesima riforma della legge elettorale significa avere una visione riduttiva e contingente dei problemi, anche istituzionali, del nostro Paese.

 

 

 

 

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