Le voci dei “matti” dei tetti rossi

Ad Arezzo, nell’Archivio storico dell'ex Ospedale neuropsichiatrico, è conservata una testimonianza unica in ambito nazionale: le registrazioni delle voci di una quarantina di pazienti che vi furono ricoverati, raccolte nel 1977 dalla storica Anna Maria Bruzzone. Questa è la storia del loro ritrovamento, dovuto alla tenacia di una professoressa toscana

Le voci raccontano “alla pari” storie personali, lucide, di personalità fragili e un mondo, quello degli ospedali psichiatrici, in inesorabile trasformazione.

«Partiamo da questo fatto, io sono una docente di glottologia e linguistica generale all’Università di Siena, e lavoro presso il Dipartimento di Scienze della formazione, Scienze umane e della Comunicazione interculturale, che ha sede nella città di Arezzo, proprio negli spazi che furono dell’ex ospedale neuropsichiatrico», la professoressa Silvia Calamai comincia così a raccontarmi la sua storia.

L'ex manicomio di ArezzoÈ da qualche tempo, ormai, che frequento la cosiddetta “Palazzina dell’Orologio”, dove si conserva l’archivio storico dell’ex Ospedale neuropsichiatrico, chiamato familiarmente “i tetti rossi”, ai piedi della collina del Pionta, un parco vicinissimo alla stazione ferroviaria di Arezzo, dove aveva sede il manicomio, chiuso nel 1989. L’archivio, composto da circa 1500 buste, conserva il carteggio del direttore, i documenti amministrativi legati ai pazienti e poi, il corpus più sostanzioso, quello delle cartelle cliniche dei ricoverati, sia nella sezione mentale che nel padiglione neurologico. Leggendo quelle pagine, si scoprono storie di fragilità, malattia, miseria, indigenza e fame, di uomini, donne e anche bambini, testimonianza forte del passato di un territorio che riesce a interpellare anche il presente. Un “archivio di carta”, ma anche sonoro, grazie al lavoro di ricerca portato avanti dalla professoressa Calamai.

«Qualche tempo fa, per passione – mi racconta –, cominciai a leggere i testi della storica piemontese Anna Maria Bruzzone, soprattutto il libro intitolato Ci chiamavano matti (Einaudi), secondo me uno dei più belli mai scritti su questi soggetti deboli e vulnerabili, che raccoglie la trascrizione delle loro voci all’interno di un manicomio, che poi è proprio quello di Arezzo. E mi sono chiesta: dov’è il sonoro?»

Anna Maria Bruzzone era una professoressa delle scuole superiori, una figura interessante di studiosa non accademica che, laureata in lettere, si era poi specializzata in psicologia e da storica indipendente aveva lavorato sulle testimonianze delle donne partigiane e delle deportate politiche.

«La Bruzzone nel 1968 faceva volontariato nell’ospedale psichiatrico. Quelli erano anni in cui era molto comune tra gli intellettuali frequentare gli ospedali psichiatrici. A Gorizia in quel periodo c’era anche Agostino Pirella che divenne poi il nuovo direttore dell’Ospedale neuropsichiatrico di Arezzo» spiega la Calamai.

Tra il 1965 e il 1971, Pirella, a Gorizia, collabora nientemeno che con Franco Basaglia, di cui fu compagno infaticabile nella lotta per la chiusura dei manicomi e per la realizzazione della riforma, che poi perseguì anche arrivato in Toscana, facendo di Arezzo una delle esperienze più rilevanti che ispirarono la legge 180.

«Credo banalmente – continua la professoressa Calamai –, che lei abbia seguito Pirella. Quando lui arrivò qui ad Arezzo si sapeva già cosa avrebbe fatto: avrebbe aperto i “tetti rossi” alla città».

L'ex manicomio di ArezzoCosì, nell’estate del 1977, questa ricercatrice indipendente trascorre circa un mese intervistando i pazienti dell’ospedale neuropsichiatrico, parlando e chiedendo loro di raccontare le proprie vite, il loro quotidiano in manicomio.

«I nastri sono più belli delle trascrizioni, perché restituiscono le voci dei protagonisti, che in un testo scritto mancano. Così mi sono messa a cercarli – spiega la professoressa Calamai –; credo di averci messo quasi due anni, coinvolgendo i colleghi degli istituti per la Resistenza, storici e studiosi che potevano essere stati vicini alla Bruzzone. Alla fine, ho ritrovato a Torino la nipote, la signora Paola Chiama. Lei ci ha mostrato la stanza che era stata della zia, lo spazio dove scriveva e anche il registratore usato nell’estate del ‘77».

La professoressa Calamai era andata a Torino con l’intenzione di chiedere all’erede della Bruzzone di prestarle i nastri, per poterli digitalizzare. «Invece, la signora Chiama decise generosamente di donarli, e ora si trovano nell’Archivio storico dell’ex Ospedale neuropsichiatrico, proprio nel luogo che ospitava quelle “voci”». La digitalizzazione dei nastri è avvenuta grazie al sostegno, anche economico, della Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana, che li ha vincolati come bene di interesse storico.

«L’archivio sonoro raccoglie le testimonianze di circa venti uomini e venti donne. Dalle loro parole, traspare anche la consapevolezza della “linea nuova” tenuta in manicomio, del cambiamento in atto, del margine di libertà che stavano, pian piano, recuperando. Sono preziosi perché i pazienti erano consapevoli della registrazione, sono atti volontari e alla pari con l’intervistatore. Non frutto di un rapporto medico-paziente».

Ora questo tesoro andrà catalogato e poi si potrà cominciare a studiarlo, anche se la professoressa Calamai spiega che prima si dovranno definire le problematiche legali: «Stiamo lavorando con gli avvocati perché questo materiale è ultrasensibile, e apre questioni etiche e legali importanti, per cui ci vuole tanta cautela».

Un lavoro che richiede fondi e anche mecenati disponibili a investire in un progetto di ricerca che vuole restituire alla città di Arezzo, e all’Italia intera, un pezzo importante della sua storia più recente.

 

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