Le piaghe e la santità

Papa Francesco, durante l'omelia di domenica in piazza San Pietro, ha spiegato senza retorica e con l'efficacia della sua semplicità l'importanza della testimonianza di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II in nome di una Chiesa povera ed evangelica. Un commento
Papa Francesco tra i fedeli in piazza San Pietro

Domenica scorsa tutta la Chiesa ha vissuto una giornata di grazia: la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Il mondo si è come fermato per vivere questo giorno di grazia e di giubilo.

L’omelia di papa Francesco ha narrato questo evento dello Spirito a tutto il mondo, in modo semplice, senza concessioni alla retorica, consapevole che il parlare dei due papi santi era anche raccontare il suo disegno di rinnovamento evangelico, che viviamo tutti con docilità di cuore e con obbedienza evangelica.

Chi ha visto in televisione il volto del papa vi ha colto un dramma, una sofferenza, come se il passaggio verso una Chiesa povera ed evangelica, misericordiosa e piena di gioia, avesse un prezzo alto, forse troppo alto, a cui per altro non ci si sottraeva.

La parola più usata è "piaghe", che ritorna sette volte, due volte torna la parola "ferite" e una volta l’aggettivo "piagato". La centralità di questa parola sta sicuramente nel Vangelo di Tommaso, proclamato domenica. Le piaghe sono le piaghe del Risorto, che contiene in sé i segni della crocifissione, dunque i segni della passione e dell’amore.

Ma questa parola indica in papa Francesco anche la sofferenza dei poveri e delle vittime, come più volte ha spiegato nel suo magistero.

Dice con nettezza papa Francesco: «Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di lui, della sua croce, non hanno avuto vergogna della carne del fratello».

Ancora papa Francesco riconosce nei suoi due predecessori «due uomini coraggiosi, pieni della parresia dello Spirito Santo». Hanno conosciuto le tragedie del Ventesimo secolo, ma non ne sono stati sopraffatti. Hanno vissuto la tragedia delle guerre e della Shoah, dei regimi totalitari e dei conflitti di oggi. Non hanno mai dimenticato il Vangelo ed hanno sempre riconosciuto il grido delle vittime. Questo in forza della loro fede e della grazia che li ha generati alla santità.

Papa Francesco ritorna alla gioia e alla speranza della Pasqua. Ma «la speranza e la gioia pasquali, passate attraverso il crogiolo della spoliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice». Il papa sembra parlare di sé stesso in questo passaggio così intenso e drammatico, come se stesse per accadere anche per lui, chiamato a condurre la Chiesa sulla via del Vangelo e del rinnovamento pastorale, la stessa sofferenza patita da Gesù, al cuore della Pasqua. A questo punto Francesco fa suo il brano degli Atti, proposto dalla liturgia. Il brano della «forma ecclesiae primitivae», la forma della Chiesa apostolica, scandita dalle quattro perseveranze, che egli attualizza con queste parole: «Amore, misericordia, semplicità e fraternità».

E sottolinea con forza che «questa è l’immagine di Chiesa che il Concilio ha tenuto davanti a sé». Qui il papa scandisce il valore e il significato del Concilio, che ha voluto rinnovare e riformare la Chiesa, ritornando al Vangelo. O, come dice ancora Francesco, la sua «fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli», cioè quella del Vangelo e nient’altro. Dice il papa: «Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria». Ed ecco il Concilio come accoglienza del Signore e dei fratelli più piccoli, come luogo del ripristinare il Vangelo al cuore della Chiesa e come aggiornamento alle gioie, alle speranze, alle sofferenze e alle angosce degli uomini e al tempo stesso come nuova riconsegna del Vangelo per i discepoli di questo secolo.

Sul Vangelo e sul Concilio, papa Francesco narra una differenza tra papa Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Egli dice: «Nella convocazione del Concilio Giovanni XXIII ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa una pastore, una guida-guidata. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; è stato il papa della docilità dello Spirito, in questo servizio al popolo di Dio». Roncalli appare come maestro e guida, come pastore e come dottore, proprio in forza della sua obbedienza allo Spirito, che gli ha permesso di superare ostacoli ed opposizione, solitudine e incomprensioni.

In questo Roncalli illumina Giovanni Paolo II e ne prepara la strada. E oggi papa Francesco lo indica come il papa della famiglia. E la famiglia è come la parabola della Chiesa, con i suoi drammi e le sua fatiche. Tutto viene ricomposto in unità dal riferimento che papa Francesco fa al Sinodo sulla famiglia. Il sinodo è un frutto del Concilio, perché il Vangelo illumini le grandi sfide dell’umanità con la medicina della misericordia, non con il bastone della condanna. E queste sfide attraversano la famiglia.

E allora Vangelo e Concilio, obbedienza dello Spirito e famiglia. Tutto si tiene, oltre le gelosie e le opposizioni, che sempre ci sono. Papa Francesco conclude, dandoci la chiave per comprendere il mistero di questa santa giornata: «Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina, che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama». In questo modo dai poveri cristiani, ai preti ai vescovi, ai cardinali, tutti siamo chiamati a non inciampare nel Vangelo.

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