Le “notti” di Maricel

Imiei più lontani ricordi d’infanzia mi riportano nitida sempre la stessa scena: mio padre che tornava a casa ubriaco e che riversava su di noi, soprattutto su nostra madre, la sua rabbia e il suo disagio. Eravamo otto fratelli, e lui molto spesso era disoccupato. Le difficoltà economiche erano grosse, e talvolta mancava il necessario. I nostri genitori litigavano spesso e non c’era pace nella nostra famiglia. Iniziai a stare fuori di casa il più a lungo possibile. “Che c’è di male? Siamo giovani: facciamo ciò che vogliamo “, era il ritornello che sentivo ripetere più spesso nella comitiva che frequentavo, ed in cui presi a sperimentare nuove “libertà”. Imparai a fumare, a bere alcol, a rientrare a casa sempre più tardi la sera. I miei genitori non tardarono ad accorgersene. Mio padre, abituato alle maniere forti, una volta lo fu con me in modo particolare. Mi picchiò e mi fece smettere di studiare. Una delle mie sorelle, a cui ero molto legata, si era già sposata pur essendo ancora molto giovane, ed era andata a vivere lontano. Mi sentivo per questo molto sola, benché vivessi in una famiglia numerosa. Cominciavo ad avere i primi problemi con i ragazzi e non sapevo con chi consigliarmi. Cercai lavoro presso una zia che aveva una bancarella al mercato. Dopo, con qualche soldo in tasca, passavo nei night. Lì conobbi la droga, il sesso sfrenato. La mattina presto andavo a lavorare al mercato con gli occhi pesti e con la mente annebbiata, per poi riprendere la mia vita sempre più loca. Una sera i miei vennero a prendermi nel locale dove mi trovavo. Aspettai che fossero andati tutti a letto, per poi uscire di nascosto. Per alcuni giorni non mi feci vedere, per poi ricomparire improvvisamente, così ubriaca da non reggermi in piedi. Intervenne ancora mio padre, che per farmi “cambiar vita” non ebbe di meglio da fare che sgridarmi e picchiarmi. Poi mi rase i capelli a zero, per quanto cercassi di divincolarmi con tutte le mie forze. Aveva raggiunto il culmine. Scappai di casa, questa volta definitivamente. Andai a vivere in un altro quartiere della città, facendo perdere le mie tracce. Trovai anche lavoro come barista in un night. La droga vi circolava in gran quantità, e io cominciai ad assumerne in dosi sempre maggiori. Per averne assicurato il mio crescente fabbisogno giornaliero, cominciai a diventare a mia volta spacciatrice. Così per sette lunghi anni: della vita loca che avevo sognato, restava alla fine solo la spasmodica caccia alla droga, tra una dose e l’altra. L’illusione durò poco, poiché mi resi conto ben presto che in quel mondo ero diventata nient’altro che un oggetto di consumo, meglio se “usa e getta”. Nei rari momenti di lucidità, mi trovavo con il viso bagnato di lacrime. E, si sa, le lacrime nessuno le vuole. Era il ’96. Ricordo che, non si sa come, i miei riuscirono a rintracciarmi. A convincermi, fu soprattutto il tono della voce di mio padre, così sincero e pieno di affetto nei miei confronti, ben diverso da come lo ricordavo. Cosa era successo? Tornai a casa e trovai un clima di serenità, quasi di contentezza che non avevo mai sperimentato. Mio padre non alzava più la voce per farsi ascoltare, né la mano per farsi ubbidire. Anzi, sembrava quasi prevenire gli altri, in tanti piccoli servizi, senza paura di perdere l’autorità. E mai avevo visto gli occhi di mia madre così luminosi e limpidi. Non mi chiesero niente, soltanto mi accolsero a braccia aperte. Ripresi la mia vita in famiglia. Di tanto in tanto facevo qualche ruzzolone: ritornavo alle vecchie compagnie, rientravo a casa ubriaca. Ma, ogni volta, trovavo mio padre ad attendermi, senza un rimprovero da parte sua. Col passare del tempo, mi portarono a costatare di persona dove e come attingessero tanta forza. Fu così che conobbi il centro sociale Bukas Palad, che i miei genitori avevano conosciuto nel periodo in cui ero fuori casa (vedi box, n.d.r.). Scoprii una vita diversa, un diverso significato della parola amore, che non toglie, ma dà. Da allora ho ritrovato un senso alla mia esistenza, e la sicurezza che sarà Maria a condurmi e a darmi la forza di riprendermi sempre e di ricominciare. E, come lei, vorrei portare Gesù, l’amore, a tutte le famiglie che incontriamo. BUKAS PALAD È un’iniziativa sociale dei Focolari che opera da vent’anni in uno dei quartieri più miseri di Manila. Analoghi centri sono sorti a Tagaytay, a Cebu, e nell’estremo sud, a Davao, dove è forte la presenza musulmana, e da pochi anni anche a San Fernando la union, nel nord. Complessivamente, con i vari programmi di assistenza sono state raggiunte seimila famiglie; nelle scuole elementari e superiori istituite si dà istruzione a oltre tremila bambini e ragazzi; negli ambulatori vengono assistite settemila persone; duemila bambini usufruiscono della distribuzione di latte e pasti caldi giornalieri. Ci sono 1.872 adozioni a distanza; il controllo tbc è esteso regolarmente ed i governi tedesco e filippino hanno dato riconoscimenti a Bukas Palad per l’efficacia nel combattere tale malattia; circa milleseicento famiglie, interessate ad avviare piccole attività in proprio, sono sostenute con prestiti agevolati… Tra le produzioni artigianali, una falegnameria, una sartoria, una panetteria, una gelateria, oltre a negozi di generi alimentari a basso costo per più di 4.500 famiglie. Nei quattro centri di Bukas Palad lavorano 60 persone a tempo pieno regolarmente retribuite (tra cui Maricel e sua madre) e 350 volontari. Bukas Palad (che in lingua tagalog significa “a mani aperte”) ha inciso profondamente nel tessuto sociale filippino, operando una presa di coscienza della popolazione sui gravi problemi sociali della zona. Ambasciate, banche, scuole, ospedali e diverse Ong hanno deciso di collaborare, coinvolgendo centinaia di persone.

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