Le dimissioni di Rahul Gandhi

Finisce una epoca. «Abbiamo combattuto contro la macchina dello Stato». «La nostra democrazia è demolita dalle fondamenta».
Rahul Gandhi

Le dimissioni di Rahul Gandhi, presidente del partito del Congresso, uscito con le ossa rotte dalle recenti elezioni indiane, sono un fatto davvero storico. Non era, infatti, mai successo che un membro della dinastia Nehru-Gandhi avesse dato le dimissioni per una sconfitta. Il partito è tradizionalmente governato da questa dinastia familiare come vuole la politica del sub-continente indiano che ai Nehru-Gandhi associa anche i Bhutto in Pakistan e Bandharanaike in Sri Lanka e due esperienze simili in Bangladesh.

La novità del periodo post-elettorale indiano che vede ormai il secondo gabinetto Modi saldamente installato alla guida del Paese è, dunque, la scelta di questo politico di quinta generazione. Rahul viene, infatti, dopo Motilal Nehru, fondatore del Congresso ancora in periodo coloniale, Jawaharlal Nehru, che lottò per l’indipendenza e fu il primo Primo Ministro dell’India indipendente, Indira Gandhi, figlia di quest’ultimo, donna di ferro che guidò l’India per due decenni prima di essere uccisa. Per concludere non dobbiamo ricordare il figlio di Indira Rajiv, ucciso anche lui, e la moglie Sonia, di origine italiana, genitori di Rahul. A differenza di chi lo aveva preceduto, Rahul ha subito messo in chiaro che la sconfitta era responsabilità dei leaders del partito ed aveva fatto capire che ci sarebbero state conseguenze. Sebbene le dichiarazioni dell’erede dei Nehru-Gandhi fossero state più che chiare, nessuno fra i grandi capi del Congresso aveva fatto un passo verso le dimissioni.

«È normale in India che chi arriva al potere poi non lo lasci. Tuttavia non si sconfiggono gli avversari senza sacrifici» ha chiarito Rahul. Nel lungo messaggio comunicato via social, il giovane leader aveva sottolineato di essersi sentito isolato nella battaglia elettorale, particolarmente dura e frontale: un vero scontro quasi personale fra Modi e Gandhi. «Abbiamo combattuto una campagna dignitosa affinché si potessero realizzare fraternità, tolleranza e rispetto per tutti in India: singoli cittadini, comunità e gruppi religiosi». Rahul ha insistito sul fatto di aver lottato con tutte le sue forze contro Modi e contro lo spirito del fondamentalismo hindu espresso dall’ideologia della RSS, ormai profondamente penetrato all’interno delle istituzioni e dell’amministrazione. «Ho combattuto perché amo l’India ed ho lottato per difendere gli ideali sui quali il Paese è fondato. In alcuni momenti mi sono trovato solo e ne sono orgoglioso». Parole forti quelle usate dal giovane Gandhi che non ha fatto sconti ai suo compagni partito, come pure anche a Modi e al suo governo, che ha continuato ad accusare di corruzione e di gestione di grosse somme di denaro non sue. Modi era accusato da Gandhi di essere come un chowkidhar, le tradizionali guardie delle case indiane, che spesso sono accusati di furti proprio all’interno delle case che dovrebbero proteggere.

La mossa di Rahul Gandhi, dunque, era annunciata, anche se resta una grande novità. Eppure, è indubbio che questo figlio d’arte che dovrebbe portare la leadership politica nelle vene non pare aver mai intercettato il ‘feeling’ del Paese, cosa, invece, riuscita perfettamente a Narendra Modi. Indubbiamente, quest’ultima campagna elettorale combattuta fra i due leaders senza risparmio di colpi è stata dura e, spesso, anche sopra le righe, come mai era accaduto per il Paese asiatico.

La stessa saga Nehru-Gandhi sembra essere arrivata alla fine, sebbene la sorella di Rahul, Priyanka, sia ora entrata nell’agone politico. Quello che, certamente, deve essere rinnovato non è tanto il nome che resta emblematico ma sono le modalità dei giochi politici e della credibilità che ormai seguono linee diverse, soprattutto facendo largo uso dei social, intercettando come fanno tutti i populismi la cosiddetta ‘pancia’ degli elettori.

Alla conclusione, Rahul ha comunque lanciato un monito che tutti, in India, dovrebbero tener presente. «Non abbiamo combattuto contro un partito. Piuttosto, abbiamo combattuto contro la macchina dello Stato. Ogni istituzione era assoldata contro l’opposizione […]. L’obiettivo dichiarato dell’Rss [Rashtriya Swayamsevak Sangh, nazionalisti fondamentalisti indù – ndr] – catturare le istituzioni del nostro Paese – è raggiunto. La nostra democrazia è demolita dalle fondamenta». Qui è il nodo dell’India di oggi che il Paese ed i suoi amministratori devono tener presente per mantenere il vero spirito della più grande democrazia del mondo.

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