Il lavoro per disinnescare il rancore sociale

Se cresce il Pil assieme alla povertà, vuol dire che bisogna affrontare la questione della dignità di chi lavora e capire la logica di una redistribuzione iniqua. Proposte concrete per una politica all'altezza delle sfide del nostro tempo

Il rancore sociale, emerso dopo 10 anni di crisi epocale sul piano economico-finanziario e culturale ed espresso con forza nel voto del 4 marzo, non si cura solo con la spesa pubblica e l’indebitamento, come negli anni ’70 e ’80 del ‘900. Per mettersi in dialogo con i settori più svantaggiati della società e disinnescare il rancore, è necessario mettere il lavoro al centro dell’agenda politica. Qui troviamo lo spartiacque tra esclusione ed inclusione.

Alcune proposte: esenzioni fiscali e contributive per 6 anni per le imprese che assumono a tempo indeterminato; un salario minimo tra 9 e 10 euro. Dobbiamo studiare bene la realtà del lavoro e comprendere perché guidiamo la graduatoria europea dei giovani “Neet” che né studiano né lavorano, mentre in vari distretti del Nord non si trovano le figure professionali necessarie alle imprese. Dobbiamo prendere atto delle trasformazioni in corso: l’avvento della tecnologia 4.0, i salari medi degli operai, i facchini della logistica, il terziario low cost che stronca la mobilità sociale. I politici devono frequentare la società, uscire dai convegni, stare in mezzo alla gente e ai suoi dolori, comprendere e guidare i cambiamenti. Il lavoro non finirà. In una fase di passaggio epocale è auspicabile una riflessione interdisciplinare sulle sfide del lavoro, comprendere problemi, opportunità e prospettive anche sul piano antropologico ed etico.

«Il lavoro è molto più di un mezzo per avere reddito da consumare. Prima o insieme a questo scopo, il lavoro è almeno altre tre cose. È il cemento della più grande cooperazione che la storia umana abbia mai realizzato nel corso della sua millenaria storia, la società civile ed economica. Milioni di persone si trovano ogni giorno, ogni ora, dentro ad un’azione collettiva con altre migliaia, decine di migliaia di persone, semplicemente lavorando. Quando non si lavora, si è semplicemente fuori da questa immensa, meravigliosa azione collettiva cooperativa e seria. Il lavoro è poi il modo più serio che ho per far fiorire i miei talenti: certo, posso farlo in altri modi, ma niente come lavorare dice agli altri e a me stesso chi sono veramente.» SEC- Scuola di economia civile.

Giovani, famiglie e lavoro

L’Italia non è un Paese per giovani, bambini e famiglie. Il rischio di cadere in povertà è inversamente proporzionale a età e dimensione della famiglia. Il 30% degli italiani sono a rischio di povertà. È profonda la frattura di una società divisa in due. Salari troppo bassi per lavori a bassa qualifica per la concorrenza dell’automazione e dell’esercito industriale di riserva mondiale del lavoro a basso costo. Il rancore che cresce secondo il Censis, ha profonde ragioni economiche. Troppe persone sono escluse da prospettive di crescita sana e serena, da accesso a istruzione e salute.

«L’apparente contraddizione tra la ripartenza del Pil e del reddito medio disponibile ed il peggioramento dei dati sul rischio povertà conferma che la lotta alla povertà non è soltanto questione di ricette per la crescita, ma riguarda crucialmente il modo in cui la nuova ricchezza creata viene redistribuita». (L. Becchetti, Avvenire, 8/12/2017).

Enorme è il danno per il capitale sociale, umano ed economico futuro dell’Italia. Occorre intervenire su “povertà educativa” e “comunità educante” come sta facendo la Fondazione con il Sud, per agire sulla “capacitazione” delle persone. Non bastano sussidi economici. Serve ricostruire una ricca rete di relazioni, rigenerare stimoli, desideri, autostima. Nel reddito di inclusione sociale (REI), finalmente introdotto in Italia, si agisce sulle famiglie prendendole in carico come associazioni del Terzo settore. I 7 miliardi di euro complessivi che serviranno per contrastare la povertà assoluta devono sostenere anche queste associazioni assai preziose per sviluppare competenze a scuola e nel lavoro. Un Paese sbilanciato sul fronte della spesa pensionistica deve riequilibrarsi investendo su famiglie, bambini e giovani. Serve solidarietà intergenerazionale.

Chiediamoci ora come sta cambiando il lavoro in Italia. Facciamo un viaggio nel cuore nero del mercato del lavoro italiano. Maurizio Di Fazio ci racconta in Italian Job (Sperling&Kupfer, Milano 2018) un Paese che lavora anche il doppio o il triplo di prima pur di non perdere un impiego non più a tempo indeterminato, dove sembrano sparite le garanzie sindacali di un tempo. La tecnologia va avanti, i diritti e i salari indietro. Nessun settore sembra risparmiato nell’onda lunga di una crisi epocale 2008-2018. Sfruttamento nei centri commerciali, nei call center, negli ospedali. Piloti dei voli low cost sull’orlo di una crisi di nervi. Corse matte in motorino, in magazzino o in auto per non abbassare la produttività controllata da misteriosi algoritmi e pistole scanner. Lavoro sporco dato in outsourcing, in subappalto a cooperative e agenzie interinali, obsolescenza programmata della manodopera, nuove forme di caporalato, mobbing. Siamo di fronte a un nuovo schiavismo? Dobbiamo approfondire la questione e trovare la via della dignità di una Repubblica «fondata sul lavoro».

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