L’anima nascosta di Bali

La storia affascinante di un principe indonesiano in una terra antica in piena trasformazione
Un'immagine del Bali Arts Festival, che si tiene ogni anno nell'isola. (AP Photo/Firdia Lisnawati)

Tra le Piccole Isole della Sonda, all’interno del più vasto arcipelago indonesiano, Bali è la più famosa per ricchezze naturali e culturali, la più visitata da stranieri in cerca dell’”esotico”. Colonia olandese della Compagnia delle Indie orientali a partire dal 1619, anno della fondazione di Batavia (l’odierna Giacarta), prosperò grazie soprattutto al mercato degli schiavi e accrebbe il suo predominio a spese delle varie dinastie regnanti sempre in discordia fra loro.

Durante la Seconda guerra mondiale l’isola subì l’occupazione giapponese fino all’agosto 1945, quando i Paesi Bassi ripristinarono in Indonesia il primiero governo coloniale. L’anno seguente Bali divenne un distretto della nuova Repubblica d’Indonesia, riconosciuta indipendente nel 1949, e nel 1956 una sua provincia. Dopo il fallito colpo di Stato del 1965 contro il governo nazionale, nell’intero arcipelago scorse a torrenti il sangue di membri e aderenti al Partito comunista indonesiano. Soltanto a Bali le vittime delle stragi superarono il numero di 100 mila.

Attacchi terroristici funestarono in tempi più recenti l’incantevole isola, nel frattempo presa d’assalto da un turismo di massa che sta rapidamente stravolgendo l’equilibrio della natura, le tradizioni religiose e l’antica economia legata alla coltura del riso: un fenomeno ancora più letale dell’eruzione del vulcano Agung, che nel 1963 provocò la morte di migliaia di balinesi.

A questa trasformazione epocale, che ha visto una generazione in bilico tra i saperi contemplativi delle antiche culture orientali e la “civiltà” materialista di stampo occidentale, allude il titolo del libro di Idanna Pucci L’isola che non c’è più (Libreria Editrice Fiorentina), biografia di un rappresentante tra i più saggi ed amati di questa generazione di passaggio: il principe Madé. Nato nel 1919 in piena epoca coloniale e feudale e spentosi nel 2010 nella sua residenza ad Amlapura, questo rampollo della dinastia Djelantik profondamente radicato nella propria cultura seppe tuttavia farsi “ponte” verso l’Occidente: fu il primo balinese a studiare medicina all’estero, in Olanda, dove sposò una figlia dei Paesi Bassi, Astri Henriete Swart.

Persona mite e buona, colta e amante delle arti, dotata di vivo senso dell’humour, considerava la medicina una missione al servizio dell’uomo, a qualunque ceto, razza o credo egli appartenesse. Come esperto in malattie tropicali prestò la sua opera nelle Molucche, in Iraq, Somalia, Nepal e Afghanistan, dove si trovò ad affrontare ogni genere di avventure e pericoli, compreso l’arresto da parte della polizia segreta di Saddam Hussein. La sua straordinaria incolumità fra tante vicissitudini andrebbe attribuita ad un “segno” protettivo che il grande poeta indiano Tagore aveva individuato su di lui bambino.

Djelantik fondò a Bali il primo ospedale e la prima Accademia di danza e teatro. Scrisse fra il resto un’opera sulla pittura balinese che è diventata un classico. Nel 1999, al risveglio da una grave malattia che lo aveva tenuto in coma per un mese, iniziò a dedicarsi alla pittura ad acquerello: sue sono le delicate illustrazioni del libro della Pucci, l’amica di una vita che ebbe modo di conoscerlo agli inizi agli anni Ottanta.

Così lei rievoca quel primo incontro: «Ero scesa in una vecchia automobile giù dalle colline orientali di Sidemen, dove allora vivevo, nella regione di Karangasem, antico regno della dinastia Djelantik. Fui immediatamente colpita dai modi semplici di quel signore dai brillanti occhi neri e dal sorriso così aperto al prossimo. Davanti a lui, ebbi come la sensazione che una folata di aria fresca di montagna si fosse insinuata nell’umidità tropicale della costa».

Quella «folata di aria fresca» aleggia durante tutta la lettura di questo libro delizioso, scritto quale «omaggio non solo al principe, ma anche all’anima nascosta della sua isola». Nel raccontarne la storia, l’autrice riesce a esprimere con semplicità, senza idealizzazioni e romanticismi, ma al tempo stesso con forza, i valori di una società ancora tutta intrisa del senso del sacro, dove la bellezza e l’armonia delle cose create s’intrecciano con le sorprese e le coincidenze che hanno radice in un “altrove” sempre presente a quel cercatore della verità che era l’induista Djelantik.

«“Idanna, amica mia”, mi diceva spesso il dolce dottore dal segno magico, “nella vita bisogna cercare di diventare dei buoni antenati e per questo non dimenticare mai le parole Tri Hita Karana [letteralmente “Tre modi per ottenere il benessere fisico e spirituale”], le pietre miliari della saggezza balinese. Esse significano: “Vivere in armonia con Dio, fra gli umani e nella natura”».

Conclude l’autrice: «Bali mi ha insegnato tanto, tra l’altro l’arte dell’autocontrollo e la capacità di comportarmi al meglio in qualsiasi occasione, sempre nel rispetto della mia identità culturale. E poi, insegnandomi l’importanza del rituale e dei simboli, mi ha dato il mezzo per sentirmi a mio agio in tutte le situazioni e con gente di qualsiasi tipo e origine. Ripercorrendo con la memoria il lungo passato, posso dire di aver visto con occhi estasiati cose e situazioni incantevoli, e di aver toccato oggetti di rara creatività artistica; ma allo stesso tempo sono stata testimone della follia a cui può portare l’avidità umana. Mi sono commossa di fronte alla magia sensazionale e vulnerabile della natura e soffro di fronte alla sua inevitabile distruzione».

Nel suo racconto, dal quale anche il lettore può imparare, vive splendida la vera Bali, quella che in parte ancora resiste nelle zone interne e più remote dell’isola.

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