L’anamorfosi di Mazan

Una discutibile installazione in un’abbazia cistercense dell’Ardèche. Si può intervenire sulle antiche pietre portando danni prolungati?

Che l’arte contemporanea abbia nel mirino le espressioni artistiche del passato, è da sempre un’evidenza inerente alla sua stessa identità: l’arte contemporanea è di per sé rottura, oggi come nei secoli passati. Che questa voglia contaminare quella con installazioni temporanee, è normalità ormai arricchita da fin troppi esempi. Che ci siano dei Paesi più conservatori in materia e altri meno, è un’altra verità: Parigi, ad esempio, è decisamente più aperta al metissage artistique di quanto non lo siano Roma o Firenze, e la Francia in genere non disdegna mai di aprire nuovi cantieri al riguardo, contrariamente all’Italia. Si pensi alle ben note colonne di Daniel Buren al Palais Royal, Les deux plateaux, che Oltralpe già a metà degli anni ’80 del secolo scorso avevano scatenato un fracasso mediatico stupefacente, finché non arrivò la piramide del Louvre e così le prospettive “birichine” dell’artista parigino – ben conosciuto da noi perché ha lavorato anche a Pistoia, Torino e Colle val d’Elsa – diventarono un giochino per ragazzi.

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Ma fin dove è possibile spingersi nella contaminazione? Uno dei limiti finora generalmente rispettato, in Europa occidentale almeno, è stato quello del non mutare la struttura delle antiche costruzioni, casomai affiancando la produzione contemporanea a quella passata, o sovrapponendole installazioni temporanee. È perciò con una certa sorpresa che, deambulando per quella magnifica regione del cuore della Francia che è l’Ardèche, la zona meno popolata e meno turbata dalla modernità artistica dell’intero Esagono, ci si trova a strabuzzare gli occhi allorché si giunge nella valle che ospita una delle più antiche abbazie cistercensi della Vecchia Europa, quella di Mazan. So già che un’iniziativa culturale, pubblica e privata nel contempo, ha voluto rendere più attraente il selvaggio Parco naturale regionale dei Monti d’Ardèche sottolineando lo spartiacque Mediterraneo-Atlantico che attraversa il dipartimento: ho in effetti già incrociato due o tre opere, come l’operazione di specchi inseriti nella facciata della Certosa di Bonnefoy (De l’autre côté, dall’altra parte, opera del francese Stéphane Tidet), o la simulazione con provocatorie iscrizioni metalliche e proiezioni video alle sorgenti della Loira, ai piedi del Gerbier de jonc (1020, ad opera di Oliver Leroi). Ma uno “spettacolo” come quello dell’abbazia di Mazan è una vera sorpresa.

Problemi di vista? Occhiali sporchi? No, quegli strani segni dorati che si scorgono sulle pietre antiche dell’abbazia non sono un’illusione ottica. Mutano a ogni passo, avanzando sulla strada a piombo sul sito. Fino alla perpendicolare sulla chiesa, quand’ecco che quegli scomposti frammenti brillanti si ricompongono in una dozzina di cerchi dorati, per quella illusione ottica che viene definita anamorfosi, che in greco significa “forma ricostruita”: un’immagine viene proiettata su un piano in modo distorto, rendendo il soggetto originale riconoscibile solamente guardando l’immagine da una posizione precisa. L’effetto di per sé risulta simpatico e a suo modo intrigante, ma non si tratta come in altre occasioni di proiezioni serali o notturne, quanto di una reale pittura depositata sulle pietre antiche.

Scendo al sito, dinanzi al comune antistante la chiesa abbaziale, dove alcuni abitanti del villaggio manifestano la loro contrarietà: «Ci hanno distrutto la nostra fierezza – protesta un’anziana signora –. Pensate che i fogli d’oro resteranno così, ben incollati alle pietre, per 5-10 anni! Io non ci sarò più, non potrò più vedere la “mia” abbazia originaria, senza questi sgorbi». Un uomo sulla sessantina rincara la dose: «Sono cose politiche. Hanno fatto delle consultazioni con noi abitanti, e tutti abbiamo detto che non ci piaceva il progetto. Poi la cosa è andata avanti, solo per il prestigio dei nostri politici e per i soldi che sono circolati». E una giovane donna: «Non sono contraria all’arte contemporanea, tutt’altro. Ma quando si costruisce distruggendo, no, non ci sto più». Questo il clima tra gli abitanti del borgo di Mazan, mentre i politici locali, un po’ “leggeri” culturalmente parlando, parlano solo di «visitatori in crescita» e «interesse turistico per la nostra regione», senza degnare il cronista di grande attenzione.

L’effetto dell’anamorfosi creata dall’artista è tale che nel passeggiare tra le rovine dell’abbazia e gli edifici restaurati si rimane sconcertati per il continuo obbligo di distogliere l’attenzione dalle architetture, dalle iscrizioni e dalle forme scolpite delle origini cistercensi per posarle sulle nuove combinazioni visive suscitate dai fogli d’oro ben incrostati sulla pietra. Intendiamoci, l’operazione provocatoria riesce bene, e appare persino plausibile quanto ci spiega più tardi l’autore dell’opera, Felice Varini, svizzero di lingua italiana operante a Parigi, già familiare con interventi “pesanti” sull’esistente, che sia naturale o artificiale: «La luce ha sempre fatto parte integrante del mio lavoro – dice –. Quando utilizzo un unico colore, la luce mi permette di rivelare l’infinità delle sfumature. A Mazan ho scelto fogli d’oro per catturare le variazioni della luce secondo le stagioni e le ore del giorno. Ho pure voluto echeggiare la diversità dei minerali presenti sul sito dell’abbazia». Nelle intenzioni dell’artista, con questi cerchi d’oro viene «ricreato uno scrigno alla misura del prestigio del sito». Lo spartiacque, spiega ancora Varini, è una zona dai forti contrasti climatici dove i cambiamenti sono rapidissimi e gli effetti del sole assai cangianti. L’oro permette di “catturare” questi cambiamenti mettendoli a disposizione dei visitatori e degli indigeni.

La critica non si è esposta più di tanto, forse semplicemente perché il viaggio per visitare Mazan non è di poco conto. Bisogna volerci andare. Non si mette in dubbio l’indiscutibile capacità franco-française di “ricreare” opere del passato, e non si vogliono contraddire quegli studiosi che, come Umberto Eco, affermavano che «il fruitore interviene a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a scegliere i propri percorsi di lettura», ma qualche dubbio sulla bontà dell’intervento di Varini permane. Se è encomiabile voler mettere al centro degli interventi contemporanei il fruitore (e a Mazan Varini c’è riuscito pienamente), è anche vero che trasformare l’arte passata in prodotto modificabile perché consumabile dal fruitore, appare in qualche modo un atto di violenza.

L’abbazia di Mazan

Fondata nel XII secolo in una valle nei Monti d’Ardèche, ebbe un irraggiamento potente nei secoli XII e XIII, al punto da dar vita ad altre quattro abbazie (Le Thoronet, Bonneval, Sylvanès e Sénanque. Ciò diede spazio a gelosie e contese, al punto che i monaci di Mazan furono obbligati a costruire delle possenti fortificazioni per proteggersi dagli effetti della Guerra dei cent’anni. Nel 1661 solo una dozzina di monaci l’occupavano. La chiusura definitiva dell’abbazia ebbe luogo nel 1790, per mano degli attivisti locali della Rivoluzione francese. Divenne perciò per secoli una semplice “cava” di pietra. Negli ultimi decenni la chiesa e altre parti dell’abbazia sono state restaurate, in particolare l’ala dei frati conversi. Il sito è classificato come monumento storico protetto dallo Stato francese.

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