L’acqua per ricostruire la polis

Dalla voce di Riccardo Petrella, primo estensore del manifesto per il diritto all'acqua, il punto della situazione sulle politiche europee della gestione idrica.
Acqua pubblica

«Grazie all'acqua, possiamo ricostruire la polis»: è provocatoria la conclusione tratta da Riccardo Petrella, presidente dell'Istituto europeo di ricerca sulla politica dell'acqua (Ierpe) di Bruxelles e primo estensore del manifesto per il diritto all'acqua nel 2001. Di fronte al «progressivo smantellamento dei beni comuni, e quindi del ruolo delle istituzioni deputate a curarsene», il movimento di opinione pubblica che si è creato attorno alla gestione dell'acqua può funzionare da volano per il recupero di una coscienza civica. Il professor Petrella ha incontrato a Udine, lo scorso 21 marzo, la delegazione italiana del Forum europeo dei giovani per l'acqua: con loro ha ripercorso la storia delle politiche europee in merito, e tracciato un quadro della situazione attuale.

Professor Petrella, verso dove stanno andando le politiche europee sull'acqua?
«Purtroppo non verso la concretizzazione del diritto umano a questa risorsa, ma verso la sua monetizzazione e privatizzazione. Infatti l'articolo 9 della direttiva quadro del 2000 pone agli Stati membri l'obbligo di fissare un prezzo di mercato secondo il principio di full cost recovery (recupero totale dei costi): l'utente paga così per intero i costi del servizio, compresi gli investimenti sulla rete idrica e la depurazione, secondo l'idea che paga chi consuma e chi inquina. Questo però significa dare un valore monetario sia all'acqua in quanto tale che ai costi dell'inquinamento: infatti l'Ue ha investito ingenti somme nelle ricerche a questo scopo. L'obiettivo è quello di creare un mercato comune dell'acqua in cui, ad esempio, una compagnia svedese possa gestire il servizio idrico di Parigi. L'acqua diventa così non una risorsa da salvaguardare, ma un bene economico».

Il movimento di opinione pubblica non sta quindi incidendo in alcun modo?
«Già nel 2006, con la direttiva sui servizi, c'era stata una certa opposizione alle liberalizzazioni; ma nonostante ciò il provvedimento noto come Blueprint, che riconferma l'obbligo di stabilire un prezzo sotto pena di non avere più accesso ai fondi di coesione, ai fondi strutturali e ai prestiti della Banca europea degli investimenti, è stato approvato dalla Commissione e ora è all'esame del Parlamento. Probabilmente passerà, perché questi fondi sono essenziali per molti Paesi: ciò che l'opinione pubblica può fare adesso è pressione sugli europarlamentari».

Quali sarebbero le conseguenze dell'approvazione?
«Si imporrebbe una cultura dell'acqua come risorsa sempre più rara e quindi preziosa, sottoposta alle leggi della domanda e dell'offerta. Questo implica che vengano selezionati dagli investitori dei settori prioritari a cui destinarla: dato che il 44 per cento dell'acqua prelevata in Europa è usata per il raffreddamento nella produzione energetica – soprattutto nelle centrali nucleari – e il 24 per cento in agricoltura, sarebbero questi i settori più redditizi, non l'uso umano. Oltretutto diventa sempre più urgente il trattamento delle acque reflue: Milano si è dotata solo nel 2005 di un impianto, Bruxelles nel 2007, e in Paesi come la Polonia soltanto il 10 per cento dell'acqua viene ripulita. Per questo l'Ue sta puntando sull'innovazione tecnologica come mezzo non solo per contrastare la rarefazione dell'acqua potabile, ma anche per aumentare la produttività agricola e industriale per unità d'acqua utilizzata: uno dei quattro grandi progetti di partenariato europeo per l'innovazione, partito a dicembre 2012, ha appunto questo scopo».

Su che risorse può contare il progetto?
«I finanziamenti per i prossimi tre anni vanno dai 40 ai 60 miliardi di euro, per cui i fondi ci sono; a lasciarmi perplesso è piuttosto la presenza nel comitato direttivo del progetto, in qualità di stakeholders (portatori di interesse), di industrie chimiche come la Dow Chemicals e la Basf, di colossi dell'energia come General Electric e multinazionali come Suez. Su 27 membri, sono 14 ad essere legati al mondo del business e della finanza, 5 sono società miste pubblico-privato, 4 sono università ed enti di ricerca – spesso comunque legati a fondazioni private – e soltanto uno proviene dalla società civile: il Wwf, che peraltro è riuscito ad entrare solo in virtù di un accordo con Coca Cola del 2007 per promuovere la produzione di bottigliette usando meno acqua. Chiaro che tutelare l'acqua è interesse anche delle imprese, che ne hanno bisogno per la produzione, il problema è come lo si fa: è significativo che nel Blueprint non siano mai menzionati né i cittadini né i beni comuni né i diritti umani. Stiamo attenti a non farci “rubare l'Europa”, affidando tutto soltanto ai grandi stakeholders ed abdicando alla responsabilità delle istituzioni».

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