La vita più forte della malattia, in Chiara M.

Abbiamo intervistato Chiara M., scrittrice trentina colpita da una malattia rara, che l’ha resa debole nel fisico ma forte nella fede

Siamo figli di un’epoca in cui tutti vanno di corsa, dove il culto della bellezza e del successo è al massimo, eppure in molti si ammalano per mancanza d’ideali e d’amore. Proprio per questo, aprirsi alla conoscenza di pensatori illuminati, pur nel dolore delle loro vite, dedicarsi alla lettura delle loro fatiche letterarie, diventa importante. Per concedersi chance di crescita, frenare il proprio personale tran-tran e, decentrandosi da sé stessi, porsi empaticamente in ascolto di altri uomini e donne.

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Chiara M. fa parte di quei pensatori e autori di cui merita informarsi. Ex infermiera, colpita da una malattia rara, progressiva e molto dolorosa che l’ha costretta negli anni su una sedie a rotelle, è anche donna di fede autentica e intensa scrittrice. Dell’Amore e della Notte, per le edizioni San Paolo, è il suo ultimo libro. Abbiamo voluto conoscere più a fondo Chiara, per cogliere quel suo stare in tensione continua, nella resilienza, in questa vita, che non stanca mai abbastanza per celebrarne la bellezza.

Chi è Chiara M.?

Chiara è una donna normale come tante, che sta vivendo un’esperienza particolare di malattia, della quale non amo parlare molto perché il mio desiderio, non è quello d’essere definita come una “cartella clinica con una diagnosi”. Vorrei, che la mia esperienza di vita potesse, invece, essere come un piccolo puntino di luce, una speranza che vive, nonostante le difficoltà, per chi non ha più speranza.  Come io dono ciò che ho vissuto, così vorrei che i lettori trattenessero della mia storia, solo quello che può servire a loro. Magari un piccolo input per trovare la forza di andare ancora avanti. In questo modo, il mio dolore trasformato, oltrepassa me, diventa universale, avvicina tutti, diventa una specie di pass partout perché col dolore non si può barare, non ci sono maschere, né confini, regole, età, latitudine, razza colore.  Nella “verità” della sofferenza, ci si ritrova paradossalmente donne e uomini “nuovi” ma soprattutto uniti.

Quando hai preso a mettere le prime emozioni su carta e qual è stato il mordente principale?

Non ho mai avuto il cosiddetto “diario” o l’idea di scrivere per uno scopo. Quando è cominciata l’avventura della malattia, ho sentito però il desiderio di fissare su carta ciò che stavo vivendo ma solo per me stessa, perché il solo fatto di vederlo scritto mi aiutava ad elaborarlo. È stato un caso fortuito successivo o una Dio-incidenza a farmi avvicinare davvero al mondo della letteratura. Sono stata invitata a parlare a un convegno, in cui era presente un editor della San Paolo. Da cosa nasce cosa e mi è giunta la proposta di scrivere il mio primo libro, Crudele Dolcissimo Amore.

Sei stata infermiera per tanto tempo, e al contempo, spesso una paziente, soggetta a continui ricoveri e accertamenti. Come vivevi tale situazione?

Ero innamorata del mio lavoro. Quando le forze fisiche non mi hanno concesso di continuare, m’è parso come se stessi subendo un aborto: avevo una creatura che stava crescendo, si stava sviluppando, e ho dovuto abbandonarla… Essere un operatore sanitario e contemporaneamente paziente è come essere due facce di un’unica medaglia. Come paziente, capisci cosa sono l’attesa, la solitudine, l’incognita, l’abbandono, le domande che non hanno risposta; perdi un po’ della tua identità, perché diventi una diagnosi, un numero fra altri numeri. Come operatore sanitario sai che devi fare tutto il possibile per dimenticarti di te stesso e accogliere la realtà di chi, in quel momento, sta vivendo la sua personale lotta col dolore. Riuscire a far compenetrare tutt’e due queste facce credo sia il massimo desiderabile.

Nel testo fai cenno al Movimento dei Focolari. È una realtà che conosci bene?

Ho conosciuto la spiritualità del Movimento – nato nella mia città di Trento – da piccola. Sono stata una gen, partecipavo ai congressini che si tenevano a Roma, dove Chiara Lubich era sempre presente. E ogni volta era una festa. Chiara aveva un modo particolare di parlare, d’interagire, con ogni persona, grande o piccola che fosse, rispettandone ogni ruolo, con la capacità di entrare cioè nel cuore di ciascuno, amandola per quella che era, così com’era. Tuttora condivido pienamente questa spiritualità, ma non sono una persona consacrata, nel senso di aver pronunciato dei voti, com’è stato scritto erroneamente da qualche parte. Vivo semplicemente la mia vita nel quotidiano ma con nell’anima la consapevolezza di aver ricevuto un dono immenso e di metterlo a disposizione degli altri.

Che ricordi hai del tuo epistolario con Chiara Lubich?

Vivevo il nostro rapporto in modo normale. Quando si cresce con una presenza costante nella propria vita, è anche normale che questa ti dia dei consigli quando ti trovi in difficoltà. Chiara mi dava come dei piccoli “tocchi” per andare avanti. E tutto ciò che lei mi scriveva, era certamente importante per me. Quando poi, la malattia si è fatta più crudele, ogni volta che le scrivevo, lei mi rispondeva. Non mi ha mai detto “poverina” e questa è una delle cose che ho apprezzato di più nel mio rapporto con lei.  Piuttosto mi ha presa per mano e mi ha fatto entrare, passo passo, sempre più, nel cuore del Mistero.

Il tuo rapporto con Dio. Ti arrabbi ancora con questo Padre che lascia nella prova? Oppure credi che egli voglia affidarti un messaggio da dare al mondo?

Sto facendo un cammino, che non può essere esente da momenti di buio… Di arrabbiature, nel mio dialogo con Dio, ne ho avute. Ma ho anche compreso che sta a me non farmi schiacciare dalla sofferenza, dal malessere di alcune giornate decisamente “no”. Ovviamente non è facile, soprattutto quando il dolore morde forte. Per questo, la rabbia ci può stare ma se perdura nel tempo, è tossica, può far ripiegare su noi stessi. Occorre trasformare il “buio” in opportunità. È come andare in montagna e quando ancora camminavo, la mia passione era proprio quella di andare sulle  “mie” Dolomiti.   All’inizio, prima di affrontare una salita hai una visuale limitata di ciò che ti circonda, quello cioè che i tuoi occhi percepiscono alla tua altezza. Inizi a salire, trovi le prime difficoltà, la fatica, lo sforzo, si fanno sentire. Magari hai anche fame o sete ma non puoi tornare indietro, men che meno fermarti. Arrivi anche a chiederti : «Ma chi me l’ha fatto fare?» E allora ricominci a salire e  man mano che si sale, l’orizzonte si allarga e dall’alto ciò che prima sembrava grande diventa piccolo, si ridimensiona, per lasciare spazio a qualcosa di infinitamente più grande. Quando poi arrivi in cima, allora lì, l’anima si dilata ed esce il suo respiro con tutta la sua potenza. Paragono la mia vita ad una scalata, sempre più dura e impervia,  con picchi di 9 gradi. Mi rendo conto che, vista da fuori, può apparire una tragedia ma, se mi fermo un attimo a guardare, in modo distaccato “con gli occhi di Dio”, la mia vita ha un senso…  Non ho messaggi da dare, dono ciò che sono. Al resto, ci pensa Lui.

In cosa speri? Qual è il tuo più grande desiderio?

Ovviamente, tornare a camminare, correre su un prato, calpestare le foglie di un bosco e mille altre cose ancora. Un altro desiderio, riguarda le persone malate, disabili, fragili. Vorrei che fossero trattate come persone uniche, non a pezzi a seconda del loro problema. Che fosse rispettata la loro dignità e fosse alleviata la loro solitudine. Non tutti hanno voglia di stare con un disabile: è visto come un impegno, un peso o una pietosa opera di carità per sistemare la propria coscienza. Vorrei che diventasse invece naturale, spontaneo, senza far sentire quasi come una colpa l’essere aiutati. Le persone che soffrono hanno tanto da dare, possono diventare addirittura una risorsa.

Come vedi il futuro?

Non so cosa farò o mi succederà domani. Non smetto, tuttavia, di fare la mia parte. Continuo ad agire come se avessi da vivere tanti anni ma ho, al contempo, maturato una capacità incredibile di rinunciare a un programma già stabilito, che per motivazioni varie, salta all’ultimo momento. Ho piani alternativi da attivare, per non perdere preziosi attimi di una vita che lentamente sta scivolando via.  Mi sono abituata a perdere molto di quello che avevo. Ma senza farne un dramma. Perché la vita è un dono, in cui è impossibile separare la luce dalle tenebre, le speranze dalle fatiche, il bene dal male. Eppure il bene vince sempre, se si continua ad amare.

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