La solitudine di Otello

Dopo l’Otello di Nekrosius, ancora impresso nella memoria, credo che qualsiasi altra messinscena della tragedia scespiriana, forse risulti irraggiungibile per acutezza di lettura e relative emozioni. Se nella versione del regista lituano prevaleva fortemente l’aspetto passionale e barbarico, nell’allestimento di Calenda il protagonista è invece colto nella sua solitudine. Riempita da un flusso di parole ingannatrici: quelle di Iago, divorato dalla gelosia. Si insinuano come lame nella mente del Moro, fino a distruggerlo. Sono le parole, quando hanno radici malefiche, le artefici dell’inspiegabile crudeltà con cui un uomo giunge a tormentare un proprio simile per il gusto del male. Malattia dell’anima, sempre in agguato, se guardiamo agli attuali scenari di guerra. Si muove solitario l’Otello di Calenda: il “diverso” per pelle e cultura, straniero più che mai in terra di Cipro, e prigioniero della sua gelosia. Al senso di prigione rimanda la nera scenografia di Bruno Buonincontri: sotterraneo o cupa fortezza, con due pesanti grate. Scenderanno infine a rinchiudere i personaggi, alludendo a un senso di schiavitù mentale; ma anche alla trappola ordita da Iago. È lui il vero protagonista. Lo è qui sulla scena, motore di una storia che lo vorrebbe vincitore, superbamente interpretato da Sergio Romano con naturalezza e febbrile convinzione, oltre a un tocco di follia. Non va invece oltre una lineare interpretazione Michele Placido, dai riccioli bianchi sul volto abbronzato. Almeno nel finale ci saremmo aspettati un sussulto di verità. Dopo aver ucciso Desdemona (una Valentina Valsania di maniera), la scoperta dell’inganno ordito dall’ “onesto Iago” sembra lasciarlo indifferente, restando immobile seduto, per poi attaccare la tirata finale. Più detta che resa nella sua verità. Efficaci i tagli di luce caravaggeschi che illuminano, isolandoli, i volti dei due protagonisti: a evidenziare un duello verbale tra il bene e il male.

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