La sfida francescana all’economia che uccide

È davvero possibile “un’altra economia” costruita nella tensione al bene comune? Intervista ad Andrea Piccaluga direttore dell'Istituto di management della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa
AP Photo/Mark Lennihan

A Pisa si avverte l’impronta delle sfide temerarie della sua antica e fiera repubblica marinara. Nella città, sede di prestigiosi centri accademici, ha preso il via “Magis”, un “corso di alta formazione manageriale in gestione dell’impresa socialmente orientata” che vede la collaborazione tra l’istituto universitario Sophia di Loppiano, Firenze, e l’istituto di management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. L’iniziativa promossa dall’ufficio della Pastorale sociale del lavoro della diocesi di Pisa, in collaborazione con l’agenzia formativa Aforisma, è il frutto di una coralità di soggetti sia nazionali che ben radicati e fiorenti nel territorio, che andremo a conoscere in successivi articoli.

Ad attirare la nostra attenzione è la presenza attiva e partecipe al progetto di Andrea Piccaluga, direttore dell’istituto di management del Sant’Anna di Pisa. Il professore è coautore, con Marco Asselle, di una recente pubblicazione dal titolo che finisce con una domanda: “Sorella economia. Da Francesco di Assisi a papa Francesco: un’altra economia è possibile?”.

Ma, ci chiediamo, non è proprio uno dei mali della “economia che uccide”, evocata dal papa, la sovranità dei manager celebrata come corpo superiore e separato dalla massa, cioè i “minimi”, da governare? In fondo, non erano “manager” del tempo quei borghesi che, poco dopo la morte di Francesco, impedirono a Giotto di rappresentare, nella basilica superiore, l’episodio centrale della conversione del Serafico e cioè il bacio al lebbroso di Rivotorto?

Ne abbiamo parlato con lo stesso Piccaluga in questa intervista.

Da cosa nasce la sua appartenenza all’ordine secolare francescano( laici, parte costitutiva della grande famiglia francescana, ndr)?
La mia “vocazione francescana” è nata quando ero negli scout e il frate che frequentava il mio reparto mi dava ripetizioni di latino. È poi maturata durante la Marcia Francescana, quella che ogni anno porta centinaia di giovani ad Assisi per la festa del Perdono il 2 agosto e negli anni in cui ho frequentato la Gioventù Francescana.

E come si collega questa scelta con la decisione di studiare proprio economia?
Spesso nella vita le cose trovano le loro connessioni solo dopo qualche anno. Da giovani si fanno progetti, si hanno sogni nel cassetto, ma razionalità e irrazionalità (o passione) si mescolano insieme dando vita a decisioni magari all’apparenza poco coerenti.
Studiare Economia e Commercio è stata la tipica scelta razionale, orientata all’inserimento nel mondo del lavoro. Invece, quella di rimanere all’università, a studiare management dell’innovazione, è stata più irrazionale, nata lavorando, con passione, con il professor Riccardo Varaldo, con il quale mi ero laureato, ed arrivando a rinunciare ad offerte di lavoro interessanti che stavo ricevendo in quel tempo. Il collegamento ex post, a distanza di anni, è che ora all’università mi occupo di management dell’innovazione, e anche san Francesco ha introdotto parecchie innovazioni! All’inizio dei miei studi ero più interessato a capire come le imprese, tramite l’innovazione, potevano crescere ed aumentare le proprie quote di mercato, mentre ora sono più attratto da come contribuiscono al bene comune tramite l’introduzione di nuovi prodotti e servizi.

È possibile oggi, a suo giudizio, uscire dall’orizzonte capitalista senza esseri velleitari o ingenui sognatori?
L’eccesso di attenzione ai risultati economici di breve periodo, causato dalla pressione proveniente dalla necessità di remunerare gli azionisti, è ciò che ha spinto i manager a sacrificare una visione dell’impresa di lungo termine. Li ha spinti a contenere gli investimenti in Ricerca e Sviluppo e tante altre voci di spesa, pur di abbellire i conti di fine anno. Ha dato luogo alla finanza speculativa, a quella che il papa chiama “l’economia che uccide”.

Liberati da questa pressione, i manager possono lavorare mantenendo una sana attenzione sui risultati economici, ma avendo presente anche altri obiettivi, come quello del benessere dei lavoratori, della risoluzione di problemi nella società, del miglioramento del territorio di riferimento, ecc.

Ma non resta il nodo di chi controlla le società?
Per quanto riguarda i proprietari delle imprese, gli imprenditori, in passato al massimo si sperava in un loro atteggiamento vagamente filantropico o paternalistico. Sempre più spesso, invece, incontro imprenditori orgogliosi che operano affinché la loro impresa riesca sì a stare sul mercato, ma allo stesso tempo contribuisca a migliorare la vita delle persone. Il mio imprenditore preferito, Enrico Loccioni, dice spesso che vuole lasciare il mondo meglio di come l’ha trovato.

Ci sono segnali apprezzabili in questo senso?
È vero che stiamo assistendo oggi ad una sorta di “tempesta perfetta” in negativo. Inquinamento, sfruttamento delle risorse naturali, tanti lavori mal pagati e di bassa qualità, cittadini vittime di flussi di comunicazione dai quali non riescono a difendersi e che li spingono ad un eccesso di consumismo. Ma, allo stesso tempo, si sta configurando anche una sorta di “tempesta perfetta in positivo”, dato che mai in passato così tanti ambienti, di diversa natura, si erano mobilizzati per invertire il trend economico attuale.

Che strada vede possibile?
Credo che molti nodi possano essere risolti grazie a due dinamiche. Da una parte, l’introduzione di strumenti dall’alto, come leggi, regolamenti, incentivi, in grado di incidere sui comportamenti delle imprese e delle persone. Dall’altra, un cambiamento dal basso, con imprenditori e consumatori che decidono spontaneamente di modificare i loro comportamenti, in virtù dei loro valori, delle informazioni disponibili e anche un po’ per un sano effetto di imitazione, dato che fare il bene affascina ancora, anche se ogni tanto stentiamo a crederci.

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