La scelta atlantista dell’Italia, uno sguardo storico

Atlantismo e politica italiana. Seconda parte dell'intervista al professor Guido Formigoni. Nel dopoguerra anche nella Dc esisteva uno scontro sull’adesione alla Nato e, dopo il 1949, è rimasta aperta la discussione su “come” stare dentro l’Alleanza occidentale. Una visione di lungo periodo, con uno sguardo allargato agli ex Pci ed ex Msi, per cercare di leggere le attuali scelte di politica internazionale del nostro Paese
(Thomas Coex, Pool Photo via AP)

La scelta atlantista dell’Italia. Continua, dopo la prima parte, l’intervista allo storico Guido Formigoni.

Tralasciando le posizioni dei cattolici entrati nell’orbita del Pci, sappiamo che quel confronto acceso interno alla Dc è stato poi  forzato a rientrare nei ranghi della logica obbligata dei due blocchi. Ma le voci ancora dissidenti espressero l’auspicio di una declinazione diversa della politica della Nato grazie al contributo anche dell’Italia. Volendo fare un aggiornamento di quel dibattito interrotto, c’è stato, e fino a che tempo, un contributo originale dell’Italia all’interno dell’Alleanza atlantica? Certo, potremmo dire che il tema dominante divenne presto quello di “come” stare nell’alleanza politica e militare occidentale (il “se”, cioè l’ipotesi neutralista, svanì presto). Lo stesso De Gasperi, in occasione della guerra di Corea, giudicò le posizioni statunitensi rischiose, e prese definitivamente la strada dell’ipotesi di rafforzare l’Europa comunitaria, con la battaglia per la Comunità europea della difesa (Ced) e soprattutto per trasformare la Ced in un embrione di comunità politica. Per decenni la Dc divenne un partito in cui, al di sotto della riconferma continua della fedeltà atlantica, si muoveva un confronto di prospettive piuttosto vivace. Alcuni sposavano le tesi più rigide di un americanismo a tutta prova, sospettoso della distensione, intesa come cedimento nei confronti dell’antagonista sovietico. Altri (non solo pochi dissidenti, ma correnti cospicue del partito), intendevano articolare l’atlantismo con una più marcata identità europea, oppure ancora con una maggiore libertà d’azione nazionale rispetto al Terzo mondo e alle nascenti identità nazionali autonome dai blocchi, o infine con una sottolineatura più decisa degli sforzi per attenuare la guerra fredda e ricostruire margini di convivenza in Europa. Non a caso dalla fine degli anni ’50 si cominciò a parlare di un “neoatlantismo”, che crebbe a divenire la linea essenziale del centro-sinistra. Poi con la solidarietà nazionale il discorso divenne ancor più articolato, data la riduzione dell’opposizione del Pci alla Nato. Ma in sostanza, ci fu sempre un filone di politica estera italiana, guidato dai democristiani (di sinistra, ma non solo: si pensi ad Andreotti), capace di questa articolazione, anche rispetto a casi delicati (sopra tutti, il conflitto israelo-palestinese). Giuliano Ferrara, in un recente articolo, ha definito questa tradizione quella dei “serpenti”, contrapponendola alla recente ripresa di un atlantismo tutto d’un pezzo della coppia Draghi-Mattarella: il suo giudizio di valore è esattamente speculare al mio, ma la sostanza dell’analisi regge bene.

Ci sono elementi attuali di quelle analisi di un europeismo non subalterno alla visione anglo-americana?
A scanso di equivoci, io penso che la crisi ucraina sia frutto di un’inaccettabile aggressione russa e che la difesa della libertà e dell’indipendenza sia un bene necessario, ma mi par difficile seguire Biden fino a sostenere che occorra condurre la resistenza fino a una “vittoria” sulla Russia e un cambio di regime a Mosca. Quale massiccio dispiegamento di violenza sarebbe necessario? Rispetto a un quadro complicato dalla minaccia dell’arma nucleare, poi… Quindi una certa eredità “neoatlantica” e una prudenza ispirata alla logica primaria della riduzione della violenza (senza nessun cedimento al male) sarebbe oltremodo necessaria anche oggi. In questo, papa Francesco mi pare abbia ragioni da vendere, oltre tutte le denigrazioni che sta incontrando.

Gli eredi attuali di quel Pci, allora schierato con Mosca (e indifferente, nella sua visione egemonica, ad un confronto vero con le voci critiche interne alla Dc), sembrano ora i più convinti sostenitori di un atlantismo di stampo clintoniano interpretato dal segretario di stato Tony Blinken. Come si spiega, a suo parere, questa posizione? Solo con la famosa battuta di Berlinguer rilasciata a Pansa, di trovarsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato?
Il Pci di Berlinguer non è che avesse sposato l’atlantismo: la tesi era sostanzialmente che, volendo loro costruire un socialismo nella libertà e quindi all’interno dello schema occidentale, non volevano modificare, al momento, il bipolarismo e accettavano la collocazione dell’Italia come fattore di stabilità. Non si dimentichi che negli anni ’70 un processo di distensione europea (la convezione di Helsinki, la ostpolitik della Germania ovest, ndr) sembrava addirittura avvicinare la possibilità di una revisione progressiva delle grandi alleanze. Lo ipotizzava specularmente anche Aldo Moro.

Ma molto tempo dopo il crollo del Muro cosa è avvenuto tra gli ex comunisti?
Oggi gli eredi del Pci sono un mondo piuttosto articolato e sfrangiato. Sono rimaste posizioni di grande equilibrio e saggezza anche nell’attuale crisi (penso a una figura come Pierluigi Bersani) e altre più disposte ad accelerare una conversione senza distinzioni sulla piattaforma della politica estera atlantica, anche nella nuova versione un po’ enfatica post-24 febbraio. Quello che a me colpisce di più è la posizione radicale assunta da tanti eredi delle posizioni libertarie della nuova sinistra, quasi che – forzo un poco l’immagine – il mito della libertà dell’Ucraina sostituisca ora quello dei vietcong. Al netto di una posizione psicologica molto diffusa (il complesso dell’estremismo giovanile ha portato molti a conversioni addirittura incredibili), tali visioni un po’ troppo rigide mi paiono segnate da una certa difficoltà a fare i conti con la politica, quasi che l’ideologia prenda spesso il sopravvento.

Cambiando fronte, il senatore Ignazio La Russa ha rivendicato una continuità di Fratelli d’Italia con l’Msi nella scelta atlantista fin dal 1949. Ma la storia dei postfascisti non è, invece, più complessa fino, ad esempio, all’elezione di Marco Tarchi a segretario del Fronte della Gioventù poi rimosso d’autorità  da parte di Giorgio Almirante, che scelse per quel posto Gianfranco Fini?
Indubbiamente esiste una complessità. La tradizione neofascista ha al suo interno un filone “rivoluzionario” che ha sempre vagheggiato un’Europa antiamericana e spiritualista. L’influenza di Evola o di altri pensatori radicali contò significativamente. Dal canto suo, la linea ufficiale del Msi, non dal 1949 (il partito votò contro l’adesione al patto), ma dai primi anni ’50 in poi, vide prevalere un anticomunismo che chiedeva di difendere la collocazione atlantica dell’Italia.

Ma le oscillazioni non mancarono, soprattutto in epoca almirantiana. L’episodio del 1977 che lei ricorda sta in quella linea. E non a caso la destra italiana post-1994 – non solo quella esplicitamente post-fascista – ha avuto parecchi ondeggiamenti, anche in rapporto al tema dell’equilibrio tra Europa e Stati Uniti. Dall’enfasi pro-Bush del Berlusconi dei primi anni 2000, che contribuì a spaccare l’Europa, si arriva alle simpatie per Putin nella Lega salviniana. Ora anche Giorgia Meloni nel suo libro uscito l’anno scorso scriveva: «La Russia difende i valori europei e l’identità cristiana». Per cui l’attuale riequilibrio sembra avere basi piuttosto fragili.

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