La pubblicità dell’azzardo non è uno spot

La cultura di massa veicolata dalla televisione è il terreno che ha permesso il cedimento attuale ai signori delle slot. Che fare? L’appello di un pubblicitario
Bambini davanti alla tv
Immaginiamo di voler convincere mille persone, adulti e/o adolescenti, a smettere di fumare tramite messaggi di questo tipo: «il fumo danneggia la tua salute e quella di chi ti sta accanto. Lo Stato e la malavita lucrano sui comportamenti di quelli come te. Dovresti smettere di fumare per il bene della tua vita, dei tuoi cari e della società!». La nostra affermazione è veritiera? Certamente sì. Ma quante di queste persone smetteranno di fumare, dopo aver ascoltato questi consigli? Probabilmente meno delle dita di una mano. Perché, con rarissime eccezioni, un messaggio razionale – come quello del nostro esempio – non può modificare un comportamento che trae origine e motivazione nella nostra sfera emotiva.

 

La straordinaria diffusione del gioco d’azzardo in Italia ha una matrice culturale, che affonda le radici nella nostra storia. All’inizio del XIX secolo, questa piccola porzione di terra era suddivisa in una decina di regni assai distanti tra loro, soprattutto culturalmente. Poco dopo, l’Unità d’Italia avrebbe raccolto sotto un’unica bandiera queste popolazioni eterogenee, con uno scarso senso dello Stato e una filosofia di vita riassunta nel detto popolare: «Francia o Spagna, purché se magna».

 

Mediocri gestioni da parte della classe politica e due guerre mondiali consegnano alla tv e alla pubblicità, negli anni Sessanta, una popolazione ancora culturalmente semplice e variegata (soprattutto tra Nord e Sud), che, per alcuni decenni, godrà di un folgorante benessere economico, purtroppo non accompagnato da un’evoluzione culturale e civica. “Chissà se va?”, cantava Raffaella Carrà nel 1971 nel programma-cult “Canzonissima”, seducendo gli spensierati genitori degli odierni ludopatici con il sogno milionario della Lotteria Italia, legati all’ormai radicata cultura individualista.

 

Così, 40 anni dopo, siamo primi in Europa e tra i primi tre nel mondo per spesa pro-capite in giochi d’azzardo. Le organizzazioni che cercano di arginare questa piaga, devono fronteggiare una cultura del gioco ormai diffusa in tutti gli strati sociali ed una classe politica spudoratamente complice e coinvolta, in varie modalità, in questo smisurato business. È una lotta impari, apparentemente senza speranza. Ma che potrebbe avere una svolta decisiva.

 

Papa Francesco, per sottolineare la minoranza numerica dei cristiani nella società moderna, ha ricordato che è rimasta “solo una pecorella” nell’ovile della Chiesa, incoraggiando gli operatori ad uscire dagli ambiti protetti e gratificanti, per raggiungere le “periferie esistenziali” e dialogare con le “novantanove pecorelle” lontane. Nei convegni che trattano il tema della patologia del gioco d’azzardo, esperti e giornalisti parlano a platee composte da persone che, salvo eccezioni, condividono l’urgenza dell’argomento. Ma le altre “99 pecorelle” ascoltano altri comunicatori: pubblicitari, registi e testimonial tv e cinematografici che, attraverso i principali mass media, coinvolgono e convincono quotidianamente una popolazione intorpidita dal benessere a vivere secondo lo stile “Io speriamo che me la cavo”.

 

Oggi tra questi due mondi c’è un muro impermeabile: gli esperti parlano con linguaggio razionale per informare platee già convinte. Registi e pubblicitari, attraverso i mass media, costruiscono una cultura individualista, senza sentire la responsabilità del loro operato. Cinque anni fa, Luca Tiraboschi, direttore di Italia 1 (la principale rete televisiva dedicata ai giovani) fu intervistato dal quotidiano La Stampa. Alla domanda «La sua è una rete rivolta ai giovani, lei si pone un problema educativo?», rispose: «No, qui si fanno trasmissioni in cui mettere pubblicità. Noi garantiamo agli investitori circa tre milioni di spettatori mentalmente giovani».

 

Questa è una battaglia culturale, che si potrà vincere soltanto con il contributo di tutti gli operatori della comunicazione.  In “media” stat virtus.

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