La morte annunciata del giornalismo

Emiliano Fittipaldi pubblica un presunto dossier sul “caso Orlandi”. Senza poterne accertare preventivamente l’autenticità. Tra “se”, “ma” e “sembrerebbe” il diritto di cronaca viene così svuotato di senso e credibilità

Il giornalista «controlla le informazioni ottenute per accertarne l’attendibilità». È scritto così nell’articolo 9 comma d del Testo unico dei doveri del giornalista pubblicato dall’Ordine dei giornalisti il 19 febbraio 2016, riunificando una serie di carte di deontologia professionale pubblicate negli anni precedenti. In sostanza il giornalista è obbligato a controllare l’autenticità delle fonti delle notizie, e quindi a darne diffusione solo dopo tale accertamento. Il che vuol dire, stando alla logica aristotelica, che le notizie che sono false non vanno pubblicate. Ma da qualche tempo il “diritto di cronaca”, cioè il diritto di diffondere notizie che altrimenti verrebbero negate all’opinione pubblica, sembra diventato l’unica regola a cui il giornalista dovrebbe sottoporsi, non un dovere ma un diritto.

Ieri il noto giornalista Emiliano Fittipaldi (che scrive su l’Espresso e la Repubblica) ha annunciato la pubblicazione di un libro sul “caso Orlandi”, la ragazza figlia di un dipendente vaticano scomparsa da casa il 22 giugno 1983 per motivi mai appurati. Non avendo trovato alcun riscontro all’interno dello Stato del Vaticano, le indagini hanno da tempo escluso il coinvolgimento di personale della Curia romana. Gli impostori, è il titolo del volume. L’autore così presenta il suo presunto scoop su la Repubblica: «Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco».

Sostanzialmente si tratta di un documento con l’elenco delle presunte spese (quasi mezzo miliardo di lire) sostenute dallo Stato Città del Vaticano «per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi». Il presunto documento riporta operazioni avvenute tra il 1983 e il 1997, fino ad un ipotetico «trasferimento» della stessa ragazza nello Stato della Città del Vaticano «con relativo disbrigo pratiche finali». Alcuni dettagli svelano già il falso, come l’intestazione in cui è scritto «Sua Riverita Eccellenza», mentre tutti sanno che in Vaticano la formula corretta è «Sua Eccellenza Reverendissima». Niente intestazioni ufficiali, timbri e firme manoscritte. A scriverlo sarebbe stato il card. Lorenzo Antonetti (morto nel 2013), che dal 1995 al 1998 era stato presidente dell’Apsa, l’amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Due sarebbero stati i destinatari: l’allora sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Re e l’allora “ministro degli Esteri” Jean-Louis Tauran, ma è scritto Jean-Luis Tauran). Sapendo la maniacale pignoleria delle segreterie vaticane, già questi semplici indizi dicono la probabilissima falsità del documento.

Ovviamente dal Vaticano sono arrivate le attese smentite, da quella del card. Re alla durissima nota del direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke: «Documento falso e ridicolo». Al Corriere della sera l’arcivescovo Angelo Becciu, attuale sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana ha dichiarato che «il documento è un falso, questo è chiaro, per stile e contenuto». Aggiungendo: «Non abbiamo nulla da nascondere. Non so cosa si proponesse chi lo ha prefabbricato, ma la falsità è palese. Andiamo avanti sereni. Dispiace, certo, per questo accanimento contro la Santa Sede e soprattutto perché così si finisce con l’infierire, con notizie infondate e novità illusorie, sulla famiglia e il suo dolore».

Al di là delle ovvie smentite, è la questione deontologica che turba. Si può pubblicare un documento di cui non è stata accertata l’autenticità? Secondo la scuola anglosassone di giornalismo, infatti, quella più rigorista, prima di pubblicare una notizia bisognava verificarla con tre fonti concordanti. Poi si è scesi a due, perché è spesso difficile trovare tre fonti che dicano esattamente stessa cosa in ogni dettaglio. Poi si è passati all’unica fonte – che sia un dispaccio d’agenzia, una conoscenza o una gola profonda –, che comunque va verificata accuratamente prima della pubblicazione. Ora manco una. Povero giornalismo

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