La lotta alle mafie a 30 anni dalle stragi del 92. Intervista a Cafiero De Raho

Massomafie e penetrazione nell’economia. Perché è sempre valido il metodo Falcone, “seguire il denaro”, nel contrasto alle organizzazioni criminali nella loro espansione planetaria. Intervista a Federico Cafiero De Raho, magistrato di grande esperienza e, fino a febbraio 2022, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo
FOTO DI REPERTORIO Foto LaPresse 23-05-2012 Vent'anni dalla strage di Capaci

Cosa è oggi il potere delle mafie? Come è cambiato il loro agire a 30 anni dalle stragi di carattere terroristico che si consumarono nel 1992? La nostra memoria collettiva è segnata dalle immagini dell’esplosione della strada a Capaci, area metropolitana di Palermo, in cui si consumò il 23 maggio l’attentato mortale contro il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrato Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Dopo pochi giorni, il 19 luglio, fu usato il tritolo in via D’Amelio, a Palermo, per uccidere il giudice Paolo Borsellino assieme ai 5 agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Cafuero De Raho, al centro, vicino a Maria Falcone, durante una delle giornate della memoria dellevittime innocenti di mafie Foto Alberto Lo Bianco/LaPresse

Abbiamo parlato delle conseguenze di quei fatti nella realtà odierna con Federico Cafiero De Raho che ha ricoperto l’incarico di Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo fino allo scorso 18 febbraio. In 45 anni di vita in magistratura, Cafiero De Raho è stato sempre in fila, su diversi fronti, nell’impegno contro il crimine organizzato.

A 30 dalle stragi del 1992 restano aperte delle zone d’ombra su quei fatti, eppure nelle sue dichiarazioni si coglie sempre un tratto di fiducia nella capacità dello Stato di contrastare le mafie. Perché?
Nessuna struttura al mondo è paragonabile alle capacità dello Stato italiano che, tra polizia e magistratura, è capace di mettere in campo, nel contrasto alle mafie, risorse straordinarie che purtroppo non erano ancora maturate al tempo delle stragi del 1992. Il mio ottimismo è perciò fondato su una semplice constatazione.

Dopo la dichiarata guerra allo Stato, con l’attuazione della strategia eversiva, cosa nostra è restata fortemente indebolita dall’azione repressiva portata avanti da magistratura e polizia giudiziaria. I vertici  dell’organizzazione mafiosa sono stati condannati alla pena perpetua, scontata nel regime di detenzione speciale del c.d. “carcere duro” Se, da un lato, restano zone d’ombra sulle stragi, dall’altro,   non può non riconoscersi la grande risposta dello Stato, frutto dell’eccellente lavoro investigativo della procura della Repubblica di Caltanissetta in stretto coordinamento con le Procure di Firenze, Reggio Calabria, Palermo e Catania, come negli ultimi cinque anni di Direzione nazionale antimafia, ho potuto constatare nelle frequenti riunioni che io stesso ho convocato .

È recente la condanna all’ergastolo di Paolo Bellini, figura di cerniera tra il terrorismo di destra e le mafie. Un risultato impensabile 5 anni fa, che dimostra come, un passo alla volta, si può arrivare alla verità.

La ricerca della verità, a volte, ha fatto emergere casi conclamati di corruzione e infedeltà. È bene tener presente ad esempio che il caso Scarantino (falso pentito manovrato da funzionari pubblici per depistare sulla strage di via D’Amelio, ndr) è stato scoperto grazie alle capacità investigative di magistratura e forze dell’ordine. Il sistema è in grado di colpire al proprio interno i casi di corruzione e infedeltà mantenendo una vigilanza costante per riconoscere quelle fonti che possono ancora agire per inquinare le indagini.

Nel suo lavoro si è imbattuto con il fenomeno delle cosiddette massomafie. Di cosa si tratta?
Prima di tutto credo che sia necessario che la magistratura inquirente continui a mantenere una piena indipendenza dal potere politico che non deve esercitare alcun controllo sul lavoro delle procure. Guai ad introdurre modifiche della Costituzione tendenti a ridurre l’autonomia e l’indipendenza dei pubblici ministeri. Le mafie si sono infiltrate nell’economia grazie ai rapporti che hanno avuto con esponenti della politica, la loro grande ambizione è stata sempre quella di avere dei referenti politici con i quali pianificare la propria strategia.

E tutto ciò avviene con modalità insidiose difficili da interpretare, perché ormai da decenni non è più il mafioso riconoscibile che consiglia al politico determinate strategie che poi si trasformano in legge ma è l’interfaccia del mafioso che, come esponente di determinati settori e categorie, sollecita l’adozione di determinate discipline che tornano a vantaggio delle mafie. Per questo motivo in ogni ambito bisogna sempre porsi il quesito: questa normativa può essere utile per le mafie? Nelle inchieste sul clan dei Casalesi come in quelle relative all’ambiente calabrese, e alle evidenze dei processi su Cosa nostra, il legame con il livello politico è stato sempre fondamentale per assicurare gli interessi mafiosi.

Con riferimento alla ‘ndrangheta, le indagini Gotha portate avanti quando sono stato procuratore della Repubblica a Reggio Calabria, evidenziavano l’enorme capacità della ‘ndrangheta di muoversi attraverso organismi segreti di natura massonica per allacciare rapporti con la politica e l’economia. Una strategia adottata fin dagli anni 70 e inizi anni 80 che è stata poi imitata come modello da Cosa Nostra. La massoneria funziona da camera di compensazione tra diversi interessi per conseguire degli obiettivi importanti delle mafie come dimostra la capacità della ‘ndrangheta di essere presente a livello planetario, in Germania come in Canada e negli Usa, in Sud America come in alcuni territori dell’Africa e dell’Asia. Questa enorme proiezione si spiega con la decisione maturata a fine anni 80 di staccarsi dal modello stragista tipico di Cosa Nostra per affermare un sistema di infiltrazione nelle istituzioni e nell’economia.

Uno scenario che conferma ancora di più la giusta intuizione investigativa di Giovanni Falcone di “seguire il denaro”…
Questa formula sintetica contraddistingue l’attuale linea strategica di contrasto alle mafie nella loro enorme presenza nell’ economia legale attraverso una miriade di articolazioni societarie presenti nei più diversi Paesi.

Occorre, perciò, un controllo serio e stringente sulle società di capitali che sono gli strumenti usati dalle mafie in economia. La loro liberalizzazione, promossa in Europa per far crescere l’economia, deve trovare nel lavoro dei notai la possibilità di esercitare un controllo sui reali soggetti che oggi possono aprire una società anche con un capitale sociale di un euro e perfino telematicamente con videoconferenze. Nelle inchieste sulla camorra abbiamo trovato società che muovevano ingenti capitali dove figuravano come soci dei semplici prestanome. È necessario non allargare ad altri professionisti il compito svolto dal notaio che svolge una pubblica funzione ed è tenuto a segnalare le operazioni sospette di riciclaggio di denaro delle mafie che possono arrivare ad acquisire il controllo di settori importanti dell’economia.

“Seguire il denaro” oggi vuol dire saper monitorare enormi flussi finanziari che non possono essere intercettati come al tempo del paziente e meticoloso lavoro di Giovanni Falcone che controllava i singoli assegni e le loro girate. Bisogna perciò rendere inter operative le banche dati dei sistemi informatici dei diversi Paesi per rendere intercettabili il flusso dei dati e così elaborare algoritmi predittivi di operazioni segnate da interessi mafiosi. Non si possono combattere le mafie senza investire sulla massima innovazione tecnologica necessaria per le indagini.

Come si spiega il fenomeno camorristico che lei ha combattuto con grande efficacia in Campania?
Napoli e la provincia hanno una storia camorristica che risale all’800. Ci troviamo di fronte ad organizzazioni criminali che controllavano i traffici illeciti e l’economia tramite l’estorsione e il pizzo. Il vero salto di qualità è avvenuto più di recente con la trasformazione della camorra in una vera e propria organizzazione imprenditoriale. Ad esempio i clan dei Casalesi già negli anni 70 avevano costituito il consorzio del calcestruzzo, degli inerti e delle cave per controllare e orientare, oltre agli appalti pubblici, il settore dell’edilizia investito dal boom di affari del dopo terremoto che ha interessato le imprese dei camorristi e quelle comunque interessate a collegarsi con loro.

La camorra non è una banda di straccioni o di gradassi che certe volte scorrazzano con i mitra in mano per manifestare un potere limitato ad una porzione infinitesimale di territorio. Il vero controllo è sempre esercitato dalle famiglie che contano, trattano con vertici della ‘ndrangheta e di Cosa nostra per fare affari assieme nelle grandi partite di stupefacenti e investire la ricchezza in società dove i capitali mafiosi si infiltrano nell’economia legale, danno lavoro e acquisiscono consenso e prestigio sociale.

Un capitolo a parte riguarda la Terra dei Fuochi ancora da bonificare dopo l’azione criminale della camorra…
Bisogna prestare attenzione anche alla capacità dei singoli di far valere i propri diritti anche a livello ambientale. Lo sversamento dei rifiuti tossici è avvenuto con il consenso dei proprietari dei terreni agricoli. Si trattava di attività note a tutti che si svolgevano, nel silenzio generale, su grandi appezzamenti di terreni negli anni 70 e 80. Solo con l’indebolimento del clan dei casalesi avvenuto grazie al lavoro della magistratura e della polizia giudiziaria sono poi sorti gruppi di cittadini a difesa del territorio.

Anche perché fino ad allora la legislazione di tutela dell’ambiente era totalmente inadeguata perché prevedeva contravvenzioni punibili con l’ammenda o massimo con l’arresto e prescrivibili nel breve termine di 3 anni mentre occorrevano 4 o 5 anni per acquisire i dati dal Nord Italia relativi al conferimento dei rifiuti speciali o pericolosi sotterrati in Campania. L’unico strumento per colpire tali azioni è stato quello di ricondurre il traffico di rifiuti nel programma del clan dei casalesi e considerarlo elemento dimostrativo della partecipazione al reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.

La mia valutazione positiva sulla risposta dello Stato, anche in questo settore, nei confronti delle organizzazioni mafiose risiede nella costatazione dell’evoluzione della legislazione antimafia e del livello di specializzazione degli organismi investigativi. Per tale motivo il mondo intero vede nell’Italia un modello da seguire nel contrasto alle mafie, un modello costruito sul sacrificio e la vita stessa di tanti leali servitori dello Stato.

Di fronte alla straordinaria capacità investigativa del nostro Paese, resta inspiegabile la lunga latitanza, quasi 30 anni, del boss mafioso Matteo Messina Denaro, che rende concreta l’ipotesi della sua protezione da parte di soggetti ancora non individuati. Non possiamo certo accettare battute d’arresto nella lotta alla mafia senza cedere, tuttavia, a derive di un populismo giustizialista. Teniamo presente che non abbiamo altri casi di latitati. Ricordo che, nel periodo in cui sono stato procuratore della Repubblica, a Reggio Calabria riuscimmo ad arrestare tutti i latitanti, alcuni lo erano da oltre 30 anni pur rimanendo negli stessi paesini dove avevano continuato ad abitare.

Quali figure di riferimento la hanno guidata nel suo lavoro?
Dal punto di vista professionale magistrati come Falcone, Borsellino e Rosario Livatino che faceva parte della mia classe di concorso e che ricordo per la sua straordinaria serietà e dedizione.

E poi mio padre, che mi ha insegnato sempre la correttezza, la lealtà, la dignità. Sono i principi che mi hanno sempre guidato nel rispetto degli altri e della propria persona. La difesa della dignità che si costruisce con impegno e sacrificio. Poche nozioni ma chiare che ho ricevuto fin da bambino.

 

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