La leggenda del Santo Narratore

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Si dice del Baal Shem Tov – il fondatore del chassidismo, movimento religioso ebraico nato nell’Europa Orientale attorno al Settecento – che quando voleva chiedere una grazia particolare andava in un bosco, accendeva una candela, recitava una preghiera e puntualmente otteneva la grazia. I discepoli della seconda generazione, però, dimenticarono il luogo nel bosco dove si recava il maestro, ma accendevano la candela, recitavano la preghiera e sempre ottenevano la grazia. I discepoli della terza generazione s’erano ormai dimenticati sia del bosco sia della candela, ma si ricordavano la preghiera, la recitavano e sempre ottenevano la grazia. I discepoli della quarta generazione infine avevano dimenticato anche il testo della preghiera, ma… sapevano narrare questa storia, e ottenevano sempre la grazia. Quando si è in una situazione senza speranza, quando pare di non possedere più alcun mezzo per opporsi al male, spesso qualcosa si può ancora fare: si può narrare quello che è successo. E questa narrazione a volte si trasforma in un’arma potentissima. La cultura ebraica ha sempre dato grande valore all’arte del narrare. Un’arte rara però, che non molti possiedono. Che Joseph Roth indubbiamente possedeva in sommo grado. Joseph Roth è stato uno degli scrittori europei più straordinari del Novecento. Un’autore poliedrico, affascinato dall’arte del raccontare, per la quale possedeva un innato sesto senso e un talento smisurato. Di tutto scriveva Roth. Ma, dotato allo stesso tempo del fiuto e della lucidità del repoter e della sensibilità del poeta, senza mai scivolare in un mellifluo decadentismo, egli fu soprattutto il cantore della scomparsa. Cantò la fine dell’Impero Austro-Ungarico, descrivendone la parabola discendente in romanzi che restano veri capolavori: La marcia di Radetzky e La grotta dei Cappuccini. In Ebrei erranti fu, inconsapevolmente, uno degli ultimi testimoni e appassionati cantori di quel mondo ebraico dell’Europa orientale proprio alla vigilia della sua scomparsa – perché pochi anni dopo verrà cancellato quasi completamente dalla furia nazista. E cantò infine la sua stessa dissoluzione nel racconto La leggenda del santo bevitore, che molti ricorderanno per la trasposizione cinematografica fatta da Olmi. La figura del protagonista – un barbone “ormai tranquillamente estraneo a ogni società, visitato da brandelli di ricordi, generosamente disponibile a tutto ciò che incontra, e in segreto fedele a un unico a apparentemente inutile voto” – diventa l’icona della convulsa vita di Roth che la dannazione dell’alcol porta a una precoce fine. Scomparsa, dicevo. Forse per questo, la storia della sua vita, pubblicata dall’Adelphi in un recente volume, lascia presagire già dal titolo il sapore della scomparsa: Fuga e fine di Joseph Roth. Raccontata in modo mirabile dal solo che poteva accingersi a una simile impresa: Soma Morgenstern, che oltre ad essere un fine scrittore è stato anche un affezionato amico del grande scomparso. Da questa biografia emerge la personalità multiforme e complessa, quasi leggendaria, dello scrittore. E sembra confermare l’ipotesi che, nel campo dell’arte, molto sovente, il carattere dell’autore e il carattere dell’opera da lui prodotta possono non assomigliarsi affatto. Joseph Roth appare in queste pagine una persona insolente, a volte ingrata, a volte tremendamente egocentrica: “un po’ infantile e un po’ impostore, ma sempre geniale e lucidissimo nei suoi giudizi sull’epoca”. Insomma, come egli soleva dire di sé stesso: sono cattivo, ma intelligente. Roth morì nel ’39 a Parigi in un ospizio per senzatetto. Il grande scrittore aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita in modo dissoluto e distruttivo, l’abuso di alcol lo portava spesso al delirio; visse finché riuscì a narrare. Roth la sofferenza l’aveva sperimentata: non aveva mai conosciuto il padre che lo aveva abbandonato dopo la nascita; e il matrimonio – la moglie Friedl soffriva di una grave malattia psichica – si rivelò estremamente infelice. Come altri grandissimi – come Beethoven, Mozart, Van Gogh tanto per fare alcuni nomi – anche per Roth, la genialità dello spirito sembrava sopraffare la sua stessa struttura psicofisica: col passare degli anni la tensione interiore s’era fatta sempre più difficile da sostenere, e la parabola della propria distruzione si profilava così in modo ineluttabile. Però egli ha raccontato. E quello che ha raccontato rimane un tesoro immenso per gli altri. C’è un’opera di Roth che è assai particolare: Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. In essa lo scrittore attinge a quella fonte inesauribile, a lui familiare (era nato in Galizia da una famiglia di origine ebraica) che è la cultura ebraica e il mondo degli ebrei orientali. Quel mondo degli infangati shtetl(1) delle pianure ucraine e polacche nei quali grandezza d’animo e miseria, dolore e sporcizia s’intrecciavano in una trama irripetibile creando uomini e donne possenti ed eteree, come le figure che si librano a mezz’aria nei quadri di Chagall. È in quest’atmosfera che si snocciola la storia di Mendel Singer, “un ebreo devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo”, che esercitava la professione del maestro. E Mendel, che non vuole altro che una vita semplice e tranquilla, viene afflitto da ogni sorta di sventure e sopraffazioni, tanto da sembrare in tutto e per tutto l’immagine del biblico Giobbe tentato da satana. Mendel dimostra in tutte le avversità una pazienza quasi sovrumana, ma alla fine non ne può più, non riesce più a comprendere un Dio che lo prostra a tal punto, e a modo suo Lo sfida, bruciando lo scialle rituale della preghiera. Ma Dio non aveva dimenticato Mendel e, in un coinvolgente finale, uno dei pochi lieto-fine scritti da Roth, lo ricompensa inaspettatamente delle sue infelicità. È un romanzo veramente stupendo. Santità e arte di solito battono strade divergenti. Ma c’è chi, con lo sguardo acuto del genio, le vede più vicine di quel che possa apparire. Mai come nel caso dell’arte ci troviamo di fronte al mistero dello Spirito, che soffia dove vuole, distribuendo nell’umanità i talenti secondo modalità insondabili. Forse Roth intuiva qualcosa del genere, quando, con sublimi pennellate – coniugando miseria umana e santità alla luce dell’opera artistica – abbozzava il proprio ritratto ne La leggenda del santo bevitore; e, in chiusura del romanzo, sottolineava l’arrivo del protagonista al traguardo finale della vita con le parole: “Conceda Dio a tutti noi, noi bevitori, una morte così lieve e bella!”.

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