La legalità giorno dopo giorno

Articolo

Di ritorno dalla Sicilia in aereo, in una limpida giornata di gennaio, vedo a un certo punto un grandissimo cratere innevato e tutt’intorno una enorme distesa di case. Non c’è dubbio, quella splendida città sotto i miei occhi non può essere che Napoli e quel cono imbiancato il Vesuvio. Difficile dimenticare quello spettacolo quando qualche giorno dopo mi ritrovo dentro la città, nell’elegante quartiere del Vomero come a Fuorigrotta, sul lungomare di via Caracciolo o dentro le mura di Santa Chiara. Due mesi fa ero stata a Scampia, periferia nord della città insanguinata da una faida fra clan tuttora in corso. Questa volta problemi analoghi li trovo a Forcella, in pieno centro. Qui la vita si svolge fra stradine strette e case degradate. Un insieme di vicoli e palazzi che prende il nome dalla forma a Y della Vicaria Vecchia, la strada principale che l’attraversa. Vicina a corso Umberto e via Duomo, due tra i principali assi viari della città, è comunque una zona off limits. Attraversarla significa quasi varcare una soglia, oltrepassare un confine tra due città: la Napoli bene che va a via Duomo e dintorni per lo shopping e il turismo, e l’altra Napoli che lì vive, sopravvive e muore.Anche per errore, come è successo l’anno scorso ad una ragazza di 14 anni,Annalisa Durante, uccisa per sbagli Qui come altrove la partita si gioca sulla conquista del territorio. Lo sanno bene i camorristi che per garantirsene il controllo stanno uccidendosi fra di loro. Lo sanno bene anche i cittadini onesti che per riappropriarsene stanno unendosi fra di loro. È in questa prospettiva che è partito da poco un corso di educazione alla legalità aperto alla città. Promosso dall’ associazione Percorsi di fraternità – Movimento dell’unità – il progetto, che prevede alcuni incontri mensili con personalità di rilievo, sta coinvolgendo numerose altre associazioni operanti a Napoli. C’è in questa esperienza un elemento di novità significativo: si tratta di un cammino da fare insieme, mettendosi in rete. Alla prima serata intervengono un magistrato, Raffaele Cantone, un politico, Leoluca Orlando, già sindaco di Palermo, uno scrittore siciliano, Roberto Mazzarella. Numerosi i cittadini presenti di varie età, estrazioni sociali, orientamenti politici. Dai temi trattati emerge la gravità del fenomeno camorra e il suo forte radicamento nella città; la differenza tra mafia e camorra, l’una con una struttura verticistica che arruola full time professionisti del crimine, l’altra molto frammentata e la presenza tra le sue fila di tanta manovalanza non specializzata; la capacità di attrattiva che la camorra esercita sui giovani mettendo loro tanti soldi in tasca e una pistola in mano già a 17 anni, come afferma il magistrato Cantone; l’assoluta necessità di non esorcizzare tali fenomeni ma di parlarne; il bisogno di imparare la legalità a partire dai piccoli gesti quotidiani. Soprattutto viene sottolineata l’importanza di creare una cultura della legalità e della solidarietà. La cultura della legalità è trasformare le regole in stile di vita – sostiene Orlando -. Se non è così la nostra lotta è perdente, né può essere delegata alle forze di polizia o alla repressione. E poi promuovere nel nostro paese una cultura della solidarietà. Noi, invece, stiamo distruggendo la dimensione comunitaria della vita. È chiaro che se sei solo rischi, se siamo in tanti non rischiamo . Da qui l’invito forte, accorato quasi, a riconquistare l’orgoglio di essere napoletani o siciliani, a porre fine a quelle pericolose equazioni (siciliani uguale mafiosi, napoletani uguale camorristi) che non rendono giustizia all’identità culturale degli uni e degli altri. Così come islamico non coincide con terrorista. Di intensa umanità la testimonianza di Roberto Mozzarella, che ricorda la sua amicizia con Paolo Borsellino, trucidato dalla mafia. L’uno giornalista, l’altro magistrato, entrambi cittadini con una matrice comune: L’amore per la nostra terra, il soffrire per vederla così ingiustamente marchiata, spiega Mazzarella che ricorda l’amico Borsellino dilaniato da una bomba in una estate palermitana. Carbonizzato lui e bruciate buona parte delle mie motivazioni e delle mie speranze. Ma tenerezza e nostalgia hanno resistito al puzzo delle bombe e al realismo brutale dei fatti. Forse perché ha prevalso su tutto la dimensione del cittadino che si piega sulla sua città per ascoltarne i bisogni e le sofferenze e nell’esercizio di questa sua dimensione trova la discriminante tra il bene ed il male, tra le mafie e i poteri occulti e un modello di società nuova. C’è quella sera fra i presenti un cittadino che ha fatto questa scelta in circostanze tragiche. È il papà di Annalisa. Perdere una figlia di 14 anni per un errore della camorra gli ha segnato la vita ma non gli ha tolto la speranza. Dobbiamo essere coraggiosi – mi dice -, dobbiamo restare qua, cacciare via questa gente. Io credo alla magistratura a tutti quelli che lavorano per il bene e anche la gente di qui sta con me, vuole cambiare il quartiere di Forcella, vuole vivere meglio. Non possiamo arrenderci, dobbiamo pensare agli altri ragazzi. Anche i giovani dicono la loro. Ci sono quelli dell’associazione Studenti napoletani contro la camorra che oltre a testimoniare il loro impegno lanciano uno slogan: Io resto a Napoli. Un invito non solo a non andar via dalla città ma a rimboccarsi le maniche, a superare ogni reticenza od ogni ripiegamento sui buoni sentimenti. Se c’è un aspetto che rimbalza evidente quella sera è che l’unico modo per amare Napoli è vivere per la gente di Napoli, passando dal sentimentalismo all’azione. Costruire rapporti per trovarsi compagni di viaggio, creare la comunità con chi è diverso, con chi è all’opposto, distante da te, offrendo uno spazio dove questo possa avvenire, mi dice Diana Pezza Borrelli, presidente di Percorsi di fraternità, spiegandomi il senso dell’associazione stessa e del corso appena inaugurato. Ed è sicuramente un dato positivo il fatto che a Forcella siano numerose le associazioni che collaborano per il risanamento del quartiere, facendo leva sulle caratteristiche dei napoletani che sono un popolo gioioso, pieno di voglia di vivere, di stare insieme, di divertirsi… Viviquartiere, ad esempio, è una di queste. Nata nel ’94 da un gruppo di giovani prevalentemente universitari originari di quartieri a rischio, crea delle opportunità di animazione territoriale in occasione di alcuni eventi dell’anno, Carnevale, Natale, Pasqua… coinvolgendo scuole e parrocchie dei quartieri. Abbiamo individuato nello strumento della visita guidata l’opportunità di raccontare all’esterno aree che a Napoli e non solo sono conosciute per i fatti di cronaca nera e invece hanno un patrimonio più che millenario di arte e storia mi racconta Pasquale Molfetta che ne è il responsabile. Quali le reazioni? L’orgoglio di alcuni abitanti per il fatto di ricevere delle visite; la diffidenza di altri per l’impressione di essere meta di gruppi alla ricerca di rarità sociologiche (il basso, i panni stesi, una sorta di zoo safari); un riscontro positivo negli artigiani coinvolti (laboratori di pasticceria, pizzerie) che hanno così trovato dei clienti abituali. Tutto ciò è importante per dei quartieri che rischiano di essere ghettizzati. Ad esempio alcune persone che si erano spostate da tali quartieri trent’anni fa non ci avevano messo più piede. Sono tornati grazie alle visite organizzate da noi, dice con soddisfazione Molfetta. Anche quelli del comitato Noi con Forcella sono riusciti a coinvolgere centinaia di turisti con visite destinate ai siti archeologici del rione che è, tra l’altro, il primo insediamento paleocristiano a Napoli, senza tralasciare i vicoli e gli anfratti del quartiere. E non è mancata la presentazione di un manifesto, sottoscritto da oltre 2000 firme, che chiedeva collaborazione con le istituzioni per rendere più vivibile Forcella. La musica, poi, a Napoli ha una grande forza di coesione. Ne è convinta Gabriella Marino di Arteteca, un’associazione che promuove musica sociale nei luoghi di disagio quali il carcere minorile di Nitida, ma non solo. Anche a Forcella Arteteca è presente con artisti di valore come Hobo, una delle tre voci dell’orchestra italiana di Renzo Arbore. E che dire del folklore in genere? Jorgos Pittas, greco, è presidente di un’associazione, Atopos, che utilizza tradizione, musica, danza, letteratura, cinema e teatro per favorire la socializzazione. Lavoriamo nelle scuole, nelle carceri, in ambiente psichiatrico – mi dice -, ma anche con le persone normali per insegnare l’integrazione, perché c’è molta solitudine. Solo qualche flash dell’impegno di tanti, singoli, movimenti, associazioni ed enti vari che hanno raccolto la sfida di non rassegnarsi all’illegalità. Per rosicchiarle terreno. Insieme. Non a caso il corso di educazione alla legalità viene presentato nei locali di un centro di aggregazione giovanile, La bottega delle meraviglie, che ha sede in quella che fino a qualche anno fa era la casa di un boss, poi arrestato. Un buon auspicio? SEGNALI INCORAGGIANTI Intervista all’on. Giuseppe Gambale, membro della Commissione nazionale antimafia che nelle scorse settimane si è riunita proprio a Napoli. On. Gambale qual è lo stato di salute della camorra? Quello che abbiamo potuto rilevare è la grande presenza e polverizzazione dei clan in città, dovuta al fatto che sono saltate le antiche alleanze e i vecchi capi.A Forcella ad esempio, proprio in gennaio è stato ucciso il luogotenente, il boss che governava il quartiere. Il rischio è che questi vari focolai potrebbero portare anche a nuove faide, tutte legate in particolare al mercato della droga ma anche a quello della contraffazione. Ma se l’arresto di un capo è un elemento di nuova organizzazione del territorio è al tempo stesso un segnale forte. Ma i napoletani denunciano oppure no? È in corso una grande attività delle associazioni antiracket che stanno svolgendo un ruolo importante. Ci sono i primi segni di una collaborazione dei cittadini che va nella direzione della denuncia e questo frutta tanto più quanto più non è il singolo cittadino ma è l’associazione che se ne fa carico. Sono comunque risultati in controtendenza. Così è successo a Forcella dopo l’omicidio del luogotenente ucciso in casa; così dopo l’omicidio della mamma di un camorrista a Scampia. Di recente ci sono stati alcuni arresti eccellenti. Perché questi risultati non sono arrivati prima? Sicuramente negli anni passati c’era stato un calo di attenzione dal punto di vista investigativo (non dimentichiamo che la procura è stata bloccata per due anni dal caso Cordova – procuratore capo rimosso dal Csm per incompatibilità ambientale), ed anche uno scontro istituzionale. Di certo l’attenzione non è stata adeguata alla situazione ed è anche stato sottovalutato il fenomeno del mercato della droga che è cresciuto pesantemente tanto da favorire a Secondigliano la creazione di una vera e propria holding organizzata. Davanti a questi fatti dobbiamo tener presente che qualcosa non ha funzionato. Adesso c’è una maggiore sinergia tra le forze dell’ordine, gli organi giudiziari e quanti sono impegnati su questo fronte e ciò favorisce l’efficienza . Un parroco in prima linea A colloquio con don Luigi Merola, che per la legalità rischia ogni giorno la v Sono nel quartiere di Forcella dal 1 ottobre 2000 ed ho 32 anni. Quando sono arrivato qui ho avuto l’impressione di un quartiere abbandonato, dove mancavano i servizi essenziali, a cominciare da quelli sanitari. Ma la cosa più tremenda era vedere un quartiere in mano alle sentinelle della camorra che ne regolano la vita quotidiana. Esordisce così don Luigi Merola, che da quando mette piede a Forcella, nella parrocchia di San Giorgio maggiore, porta una ventata di novità. Comincia a chiedere l’aiuto dei giovani per organizzare un doposcuola per i bambini, si adopera per recuperare quelli che a scuola non ci vanno (il 15 per cento), crea dei laboratori di teatro, pittura, danza. Immagino che abbia incontrato delle difficoltà… Non è stato semplice ma a tal proposito ricordo un episodio giorno e la presenza delle forze dell’ordine non era forte come oggi. È evidente che qualcuno non ha gradito il mio impegno fuori dalle mura della chiesa. Ma lei crede davvero che si può fare qualcosa contro la camorra? Quando venne il papa a Napoli nel ’90 disse: Organizzate la speranza. Quel motto ha guidato tutta la chiesa di Napoli. La testimonianza più bella è sicuramente quella di dialogare con tutti, metterci insieme, unire le forze perché se la gente ci vede uniti allora si fida. La nostra divisione è la forza della camorra. Noi siamo convinti che Forcella, per me è rimasto emblematico: un bambino all’inizio mi accolse graffiando la mia macchina, adesso è uno dei ragazzi che collaborano in parrocchia. Dei piccoli miracoli possono succedere. Se ci si crede, i risultati vengono. E poi cerchiamo di non fermarci ai bambini ma di arrivare ad incontrare i genitori. Come va con gli adulti? Lei conosce dei camorristi, li vede in chiesa? Bisogna riconoscere che rispetto a Scampìa e Secondigliano qui le persone hanno chiesto la presenza delle forze dell’ordine, però non basta più. Cercano dei punti di riferimento, almeno per i loro figli. In quanto ai camorristi posso dire che solo una minima percentuale di loro viene in chiesa perché sono coscienti del loro stato. Chi viene lo fa per superstizione, magari perché pensa che mettendo il soldino davanti al santo avrà l’anima salvata. Spesso non si capisce che la fede deve stravolgere la nostra vita e che il cristiano dovrebbe far venire agli altri la voglia di incontrare Dio. Se la nostra società ha tanti problemi è anche perché la nostra testimonianza non sempre è efficace. Il suo impegno sul territorio non è stato gradito da tutti tanto che da qualche tempo lei vive sotto scorta… Sì, oggi vivo non solo col mio angelo custode celeste, ma ne ho qualcuno anche in terra… Tutto è successo perché io sono convinto che il prete deve non solo predicare il vangelo ma anche denunciare le ingiustizie. Quando sono arrivato a Forcella mi sono dato da fare perché il traffico di droga era troppo diffuso, si spacciava alla luce del essendo il più piccolo quartiere di Napoli con 10 mila abitanti, può diventare un quartiere pilota. La morte di Annalisa, il 27 marzo dello scorso anno, è stata importante per la gente di qui. Credo ci sia il terreno buono per mettere in atto un riscatto del quartiere. In questo senso la reazione del papà di Annalisa è stata importante, vero? Sì, lui ha capito che la sua vita non poteva più essere quella di prima, che la figlia gli aveva lasciato una grande missione, che bisognava fare qualcosa per il quartiere. Non ha avuto paura, ha denunciato, si è costituito parte civile. Inoltre quando ha compreso che la bellezza della vita di Annalisa avrebbe potuto continuare negli altri, è stato d’accordo a donare i suoi organi.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons