La grandezza del servitore

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Ho davanti agli occhi l’ultima immagine del papa, la sua sofferenza straziante, non attonita né eterea, ma dura e consapevole: quella della croce. Mi si era precisata una domenica mattina, trascorsa davanti al televisore mentre il pontefice celebrava in San Pietro. Era il giorno al cui tramonto, lo si sapeva, avrebbe lasciato i palazzi apostolici per entrare al Gemelli, dove sarebbe stato sottoposto a un’operazione chirurgica del cui esito né lui né altri potevano essere certi. Capivo anch’io, come tanti, che ogni suo gesto gli costava fatica: la mano non impugnava il pastorale, ma vi si stringeva. Il viso era rigido, lo sguardo fisso, la voce malferma. Un altro uomo rispetto a quello del solenne Te Deum nella Basilica vaticana quando, appena eletto, aveva percorso a grandi passi il sagrato per avvicinarsi alla folla e, al momento della benedizione, rivolto in alto il pastorale, tracciando nell’aria un segno di croce. Non mi ero mai accorto che il bastone delle funzioni pontificali culminasse esso stesso nella croce, scarno al pari di Paolo VI, il pontefice da cui l’aveva ereditato. Quel volto esprimeva una fragilità e una sofferenza nuove, dovute alla volontà di governarle, come accade a un atleta a cui vengono meno le forze, ma non al punto di costringerlo a desistere; e mi sono tornate alla mente le parole dell’apostolo Paolo, quando sentì approssimarsi il declino del suo vigore: Bonum certamen certavi, cursum consumavi, fidem servavi: ho gareggiato in una bella gara, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Così tra i molti titoli assegnati alla grande testimonianza di questo papa sceglierei quello che, a parer mio, più gli somiglia: servo dei servi di Cristo. Chi è il bravo servo? Chi crede, intanto, in una chiesa che procede nel segno della conversione, non solo dell’avvedutezza, della pace, non solo dei compromessi, del pentirsi, non solo del convenire, del liberare, non solo del redimere, e infine dell’unità invocata da Cristo, non degli opportunismi diplomatici e solitari. Il bravo servo, dunque, richiama tutta l’anima e tutto il corpo per servire degnamente il padrone, cioè Dio; anche se per noi, protesi a dare qui, adesso, un senso alla nostra vita, quel padrone è l’uomo, con le sue miserie e le sue grandezze, le sue paure e i suoi coraggi. E, comunque lo si interpreti, con il miracolo del suo esistere, intanto, su questa terra; dove il primo dei suoi doveri è spendersi, mettere cioè a frutto il viatico ricevuto. Allora ho pensato a Karol Wojtyla: sempre in corsa, per dir così, mai prudente o parsimonioso nel darsi anima e corpo. È stato un atteggiamento verso la vita stessa che possono intendere coloro i quali l’affrontano con pienezza, sapendo di dover incontrare gioie e dolori, dubbi e consolazioni, struggimenti e certezze; cioè consapevoli che solo attraversandola intensamente potranno dare un senso persino ai cedimenti che pure attardano, prima o poi, anche gli atleti più generosi. In questa corsa, l’unica esperienza che tutti gli uomini portano impressa sulla loro carne è quella della fatica e della sofferenza. Anche il papa ne era sempre più indelebilmente segnato; sebbene, al pari e chissà se più di un semplice credente, godesse in ogni momento della vista rasserenante di Dio. Tutto il mondo, nello stesso soffrire del papa, ha visto il disegno di esplorare, sine pietate, la comune e indomabile continuità del dolore. Di ciò, in un modo che non saprei definire, Giovanni Paolo II si è fatto carico, volendo che la croce di questo tempo votato ai mille disconoscimenti di Cristo fosse visibile, per credenti e non credenti, sulle sue spalle. Non l’ha respinta né delegata, se l’è presa addosso. Non so quale lezione, teologicamente, possa trarsi da questa immagi- ne; mi pare, tuttavia, che essa racchiuda il primo segno affidato da Cristo a Pietro: essere fondamenta di un edificio per il quale non conteranno abbellimenti, decorazioni, trionfi, ma saldezza, tolleranza e condivisione: perché è il luogo su cui si poserà la croce di ciascuno e di tutti. È dalle basi che si misura la consistenza della casa, e la storia di questo pontificato è già lì a dimostrarlo; basti pensare a come si è calato negli orrori del mondo, ai gesti compiuti per condannarli e respingerli, agli accenti usati in questo occidente avaro di memoria e di equità, nel ripercorrere, coraggioso e leale, gli errori stessi della chiesa, all’invito a sentirci tutti lo stesso uomo, a credere, come volle dire da Assisi, che non c’è un inginocchiatoio da cui una preghiera, se autentica, salga più in alto di altre. Nessun potente ha mai visitato e conosciuto le realtà umane, sociali, spirituali del pianeta più e meglio di Giovanni Paolo II; instancabile, e nient’affatto celeste, nel proporre l’imitazione di Gesù; e ciò è accaduto dal primo all’ultimo dei suoi viaggi, mostrando un Cristo di misericordia, certamente, ma anche un Cristo che alle Beatitudini ha indissolubilmente legato quel guai a voi cui Wojtyla ha inteso dare una forza nuova. Nessuno è in grado di dire se il suo cammino ha manifestato tutte le intenzioni di Dio, ma come chiedere a un uomo, seppure vicario di Cristo, di essere più di Gesù, che per farsi uguale a noi arrivò persino a dubitare del Padre? È un terreno che non mi appartiene, ma se quel cammino ha un significato credo possa stare solo, come Chiara Lubich ha voluto dirci più volte, nella combinazione di dolore e speranza, di mistero e certezza, di progetto e di prova, di finitezza e infinito in cui è immersa la nostra nudità di viventi, dentro una vita, e quindi una storia, che nasce e si concluderà in altre terre e altri cieli. È un travaglio di debolezze e di forze, di peccati e di redenzioni, in cui si misura e rigenera una condizione umana che comprende tutti: chi crede, non crede, dubita, è indifferente. Poi, ci sarà sempre chi vivrà più di un’esile farfalla, e meno di una quercia maestosa. È il segno della nostra condizione terrena. Una lezione che il papa ci ha offerto, prima, con la vigoria della maturità, poi con il tremito delle mani e il tremore della voce, ma soprattutto con il pastorale piantato in terra, quasi a voler proclamare la più semplice, ma stringente delle verità: il nostro essere fatti per la vita. Ci invitava a credere, come aveva ammonito Giovanni XXIII, che siamo nati per vivere, non per morire; anche quando il male prende per sé tanta parte dell’esistenza. Questo papa, che si è richiamato all’ottimismo giovanneo e all’inquietudine paolina – non a caso ha voluto riuniti i due nomi nel suo – non ci esortava a scommettere su Dio, a lanciare i dadi, ma a riconoscerlo nell’uomo, facendo tutt’uno di lui e di noi dal momento che, attraverso il Figlio, è venuto a condividere la nostra umanità. Per questo ci ha invitato a varcare la soglia della speranza . È il suo grande, fiducioso, vivissimo lascito. I più pronti a capirlo sono stati i giovani, i primi ad accorrere per la veglia di piazza San Pietro, gli ultimi a lasciarla. Vi avevo cercato, e siete venuti! Vi ringrazio, ha detto in punto di morte, rivolto a loro, alla vita e quindi alla pace. Congedandosi, sapendo che se il seme non muore non dà frutto ha sussurrato la parola amen, per tutti.

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