La dignità del lavoro richiede una rivoluzione culturale

Intervista a Maurizio Landini, segretario generale della Fiom Cgil, tra gli ospiti di Loppianolab, sabato mattina. La riscoperta del mutualismo operaio è una delle risposte e delle strade politiche per contrastare il dominio della finanza sul lavoro. L’esperienza del fondo “Legami di solidarietà” a Pomigliano lo ha visto a fianco di un sacerdote nello sperimentare la partecipazione dal basso
Landini Fiom

Nella prima parte dell’intervista con il segretario generale della Fiom, tra gli invitati dell’edizione 2015 di Loppiano Lab, abbiamo affrontato la necessità di non cedere alla sconfitta e alla solitudine per i lavoratori che vivono le conseguenze di quella che Maurizio Landini definisce quella «globalizzazione liberista che ha riportato le condizioni di milioni di persone a uno stato di subalternità che mette in discussione e mina la loro dignità».

In che modo si può rispondere a questa trasformazione epocale?  

«Continuando ad agire insieme, collettivamente, anche quando le paure oscurano i cervelli e danno sfogo alle pulsioni più sbagliate anche tra la tua gente, tra le lavoratrici e i lavoratori. Ma è con loro che dobbiamo difendere e praticare quel diritto di coalizione che per le lavoratrici e i lavoratori è sempre stata anche una necessità, l'unico strumento a disposizione, quello che ha costruito la storia del movimento operaio. Del resto, come ricordava don Milani, quando si è alle prese con grandi problemi uscirne da soli è egoismo, uscirne insieme è la politica».

 

Lei è attualmente l’icona dell’opposizione al modello dell’amministratore della Fca(Fiat), Sergio Marchionne, e cioè proprio quello delle regole ferree imposte dalla globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. La costituzione del fondo di solidarietà di Pomigliano non è una sorta di resa e di ripiegamento?

«Ciò che abbiamo messo in piedi a Pomigliano insieme a Libera e alla parrocchia di san Felice in Pincis non è un'operazione caritatevole; per noi è il simbolo di ciò che può essere l'agire pubblico e collettivo – politico in senso proprio del termine – nel tenere insieme e coniugare i propri principi con la soluzione di problemi specifici, coalizzando pezzi di società e dimostrando che ci si può sottrarre alla rassegnazione o alla rabbia cieca che paura e solitudini possono generare in ciascuno di noi. In questo senso, certo, vengono riprese e rilanciate alcune pratiche proprie delle origini del movimento operaio, a partire dal mutualismo. Quelle ricordate più volte da Pino Ferraris – che per lunghi anni è stato un collaboratore della Fiom e un insegnante nelle scuole di formazione della Cgil -, in particolare in un agile ma fondamentale libretto, che consiglio a tutti: “Domande di oggi al sindacalismo europeo dell'altro ieri”».

 

Ferraris notava, nel ritorno del mutualismo, l’origine “fraterna” dell’esperienza operaia e la ricerca di una nuova via della politica dopo la crisi dei socialismi autoritari come di un certo tipo di welfare clientelare…

«Certamente è anche vero che queste pratiche – oltre a riprendere una tradizione antica e a lungo considerata minoritaria nella sinistra sindacale e politica europea – possono contribuire a far ritrovare la strada che la sinistra ha perso con il prevalere – e la successiva sconfitta – del modello centralista e statalista nel corso del Novecento. Per essere concreti, va letto in questo contesto il tentativo di costruzione di una “Coalizione sociale” che la Fiom sta portando avanti insieme ad associazioni e gruppi sparsi sul territorio nazionale. Partendo dalla disgregazione del mondo del lavoro, dalla solitudine crescente delle persone private delle tutele e dei diritti conquistati dalle precedenti generazioni e dalla crisi della rappresentanza politica e sociale, ci siamo convinti della necessità di incontrare altre esperienze e costruire pratiche comuni per dare alle persone che per vivere devono lavorare quelle risposte di cui hanno bisogno sul piano materiale, sociale, culturale. Per non abbandonarle al dominio dell'impresa e a quelle leggi del mercato che mercifica e specula sui bisogni più elementari, ad esempio trasformando quel che un tempo era il welfare in un grande affare finanziario».

 

Si può immaginare anche in Italia una gestione partecipata delle aziende come avviene in Germania o nelle proposte di Adriano Olivetti?

«In Italia la partecipazione tra capitale e lavoro non ha avuto mai grande spazio. Per un verso i nostri imprenditori hanno sempre teso a privilegiare la competizione fatta sul costo e sulle condizioni del lavoro piuttosto che sul coinvolgimento dei lavoratori (o dei loro rappresentanti); per altro verso le imprese hanno chiesto allo stato o agli enti locali sempre un ruolo di supporto esterno (economico o legislativo) evitando il più possibile il confronto sui modelli produttivi. A parte l'esperienza delle Partecipazioni statali (cioè l'impresa a capitale pubblico) – con tutte le sue luci e ombre declinate in un'ondata di privatizzazioni – il capitale e l'industria italiana hanno brillato per “individualismo” e “familismo”, cosa che ne ha accentuato il frazionamento e la diffusione delle microimprese».

 

Che tipo di confronto vede possibile allora?

«Il confronto tra capitale e lavoro, può esistere solo come rapporto tra soggetti diversi che si riconoscono nella reciproca autonomia e la rispettano: la collaborazione può essere il frutto di questa relazione molto particolare attorno a obiettivi comuni ma non coincidenti, in un confronto tra punti di vista diversi che prevede anche il conflitto, la mediazione, il compromesso. Questa è sempre stata l'esperienza contrattuale, esperienza che oggi viene negata proprio dalle imprese; anche quando si spaccia per collaborazione tra soggetti alla pari la ricerca di un consenso passivo del lavoro. Cosa che inevitabilmente fa sempre riemergere il conflitto e lo rende più radicale».

 

Eppure non va trovata una via di uscita comune da questa crisi che non è solo economica?

«Anche nell'attuale contingenza, segnata da una crisi economica e industriale drammatica, le imprese italiane continuano a non riconoscere il lavoro come un soggetto portatore di valori, esperienze e capacità con cui confrontarsi; al contrario il lavoro viene ridotto a merce, di cui conta soprattutto il costo e la disponibilità. Per questi motivi non sarà possibile nessuna svolta senza una “rivoluzione culturale” del sistema d'impresa e delle istituzioni pubbliche che alla centralità della finanza sostituisca quella del lavoro, che consideri le lavoratrici e i lavoratori delle persone portatrici di diritti inviolabili e di saperi non da estorcere ma con cui confrontarsi. La stessa uscita della crisi economica non sarà realizzabile fino a quando i poteri privati e pubblici di questo Paese non si convinceranno della necessità di reinvestire e redistribuire la ricchezza che il lavoro – spesso disconosciuto – continua a produrre».

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