La Chiesa oggi: verso dove andiamo?

Tema svolto in occasione del convegno internazionale per formatori di seminari che nella scorsa estate si sono ritrovati al Monastero di Vallombrosa. L’autore, già docente incaricato di teologia dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, attualmente è responsabile dei sacerdoti diocesani aderenti al Movimento dei Focolari.
Barca

L’attuale situazione della Chiesa, assieme a esperienze incoraggianti e positive, evidenzia seri segnali di crisi che, visti in un’ottica di fede, rappresentano però una chiamata a un rinnovamento della vita ecclesiale. Facendo tesoro di alcune indicazioni significative di Benedetto XVI, illustriamo questa prospettiva con tre rapide pennellate, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre.

 

Segnali di crisi come indicazioni di cammino

 

Crisi di credibilità. Abusi sessuali, delusione, critica e abbandono della Chiesa, specialmente in alcuni Paesi in quest’ultimo periodo hanno scosso profondamente il vissuto ecclesiale. In questa situazione, non è possibile appoggiarsi su glorie passate. Ne nasce la chiamata a una nuova coerenza e un nuovo impegno di santità. Anche per questo, ai nostri giorni non bastano l’annuncio e l’evangelizzazione, ma occorrono i “fatti”, la vita, la testimonianza personale: “Il richiamo coraggioso e integrale ai principi è essenziale e indispensabile; tuttavia il semplice enunciato del messaggio non arriva fino in fondo al cuore della persona, non tocca la sua libertà, non cambia la vita. Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui[1].

 

Crescente crisi di rilevanza. Già da tempo si registra una riduzione degli ambienti sociali (milieux) che la Chiesa raggiunge: secondo un’indagine in Germania, ormai sono solo 3 su 10. Fa pensare il progressivo esodo di operai, giovani, donne, assieme a una radicale diminuzione delle vocazioni sacerdotali nei Paesi più secolarizzati. Di fronte a queste sfide, il semplice impegno della catechesi, così come si è svolta tradizionalmente, si rivela spesso insufficiente. Occorre “tradurre” la verità cristiana nell’oggi e far sì che tocchi il vissuto delle persone. .

 

Benedetto XVI, ancora da cardinale, in un’intervista aveva affermato: “C’è ancora un grande lavoro di traduzione da fare dei grandi doni della fede nel linguaggio di oggi, nel pensiero di oggi. Le grandi verità sono le stesse: il peccato originale, la creazione, la redenzione, la vita eterna… ma molte di queste cose si esprimono ancora con un pensiero che non è più il nostro e bisogna farle arrivare nel pensiero del nostro tempo e renderle accessibili per l’uomo perché veda davvero la logica della fede[2]

 

La sfida del contesto multiculturale e multi religioso. Nell’attuale quadro socio-culturale, il cristianesimo appare sempre più come un’offerta tra tante. In questo contesto urge approfondire lo specifico della fede cristiana. Non a caso Benedetto XVI, con la sua prima enciclica Deus caritas est, ha posto al centro del suo pontificato il compito di ripresentare l’immagine cristiana di Dio e la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. E quindi la Chiesa come “comunità d’amore”.

 

Crollo o gestazione?

 

Se sono indubbi i segni di una grave crisi, come interpretarli?

 

Ermeneutica della fede, nella luce del mistero pasquale. Nella sua Lettera ai cattolici dell’Irlanda Benedetto XVI scrive: “le stesse ferite di Cristo, trasformate dalle sue sofferenze redentrici, sono gli strumenti grazie ai quali il potere del male è infranto e noi rinasciamo alla vita e alla speranza. Credo fermamente nel potere risanatore del suo amore sacrificale – anche nelle situazioni più buie e senza speranza – che porta la liberazione e la promessa di un nuovo inizio”(n. 6). Per quanto siano dolorosi i fenomeni cui assistiamo, e per quanto possano dipendere anche dagli uomini attori umani, la fede ci fa riconoscere Dio come il Signore della storia, e non solo di quella passata ma anche di quella futura. In realtà, la storia della salvezza è coestensiva con la storia universale.

 

Pur in mezzo alle contraddizioni, andiamo verso la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Certi che tutto coopera al bene di quanti amano Dio (cf. Rm 8, 28), possiamo confidare perciò che, nelle presenti sfide, al di là delle cause seconde, è all’opera lo Spirito per provocare un rinnovamento, anzi una vera trasformazione della Chiesa che la renda ancor più se stessa.

 

Non crisi della Chiesa, ma di un paradigma di Chiesa.Assistiamo a un’impegnativa transizione: da un modello secolare di Chiesa, che oggi non sembra reggere più, a un modello nuovo che solo lentamente sta emergendo. Potremmo caratterizzare questa transizione dicendo che stiamo passando da un modello piuttosto societario di Chiesa a un modello trinitario-comunionale; da una strutturazione fortemente piramidale, che era adeguato in una società organizzata anch’essa in modo piramidale, a un dinamismo cenacolare, che rende più pienamente conto del dato neotestamentario; dal paradigma costantiniano di una Chiesa di Stato alla Chiesa come minoranza creativa, in senso biblico: la Chiesa come sale della terra, come lievito nella pasta.  Conosciamo ciò che abbiamo alle spalle, e spesso – specialmente in una cultura che ci può apparire ostile – siamo tentati a volerci ritornare, mentre solo a fatica percepiamo il profilo nuovo verso il quale siamo chiamati ad andare.

 

Protagonista: l’azione dello Spirito.Una domanda fondamentale è senz’altro questa: si tratta di un novum da produrre con il nostro ingegno o da ricevere, accogliendolo da Dio?  Nel suo libro Kirche, die über den Jordan geht (Münster 2006), C. Hennecke si dice convinto che, in mezzo al declino inarrestabile di realtà ecclesiali un tempo fiorenti, Dio sta preparando nuove vie per essere Chiesa nel mondo di oggi. Anzi, così come gli esploratori inviati da Mosè nella Terra promessa ne portarono notizie, così anche oggi ci sono “esploratori” che ci possono dar notizia di quel novum che Dio va preparando. Si tratta di esperienze ecclesiali inedite, magari circoscritte, ma portatrici di un messaggio che riguarda l’insieme della vita della Chiesa. Ce ne sono ben più di quanto spesso pensiamo. La sfida è quella di prenderle in rilievo, valorizzarle e metterle in rapporto tra loro.

 

Ha detto a questo proposito Benedetto XVI nel suo incontro coi vescovi del Portogallo a Fatima: “Qualcuno potrebbe dire: ‘la Chiesa ha bisogno di grandi correnti, movimenti e testimonianze di santità…, ma non ci sono!’. Vi confesso la piacevole sorpresa che ho avuto nel prendere contatto con i movimenti e le nuove comunità ecclesiali. Osservandoli, ho avuto la gioia e la grazia di vedere come, in un momento di fatica della Chiesa, in un momento in cui si parlava di ‘inverno della Chiesa’, lo Spirito Santo creava una nuova primavera, facendo svegliare nei giovani e negli adulti la gioia di essere cristiani, di vivere nella Chiesa, che è il Corpo vivo di Cristo. Grazie ai carismi, la radicalità del Vangelo, il contenuto oggettivo della fede, il flusso vivo della sua tradizione vengono comunicati in modo persuasivo e sono accolti come esperienza personale, come adesione della libertà all’evento presente di Cristo[3].

 

Ermeneutica della continuità: “riforma”, non “rivoluzione”. Se parliamo di un novum che oggi si deve far strada, non si tratta – e non si può trattare – di un radicale cambiamento che si pone in discontinuità con la storia precedente, ma di una tappa ulteriore del cammino della Chiesa verso la verità tutt’intera (Gv 16, 13), una nuova fioritura di quel secolare albero che è la Chiesa. Storicamente, questa nuova fioritura da un lato attinge alle inesauribili potenzialità del momento fondante della Chiesa nell’evento di Gesù e dall’altro si va preparando da tempo nel rinnovamento ecclesiologico del XIX e XX secolo; rinnovamento che ha trovato una sua espressione decisiva nel Concilio Vaticano II ed ha continuato a maturare negli ultimi decenni.

 

Parole chiave per la vita della Chiesa: ad extra

 

La Chiesa come sacramento d’unità: “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG1). È questa la geniale chiave per una rilettura del mistero della Chiesa che Giovanni XXIII ha voluto porre al centro dei lavori del Concilio Vaticano II: la Chiesa come evento d’unità degli uomini con Dio e tra loro. Evento d’unità che ha – secondo la teologia della koinonia dei primi secoli cristiani – la sua radice in Dio Trinità, trova la sua visibilità e il suo strumento propulsore nella Chiesa – il “popolo adunato dall’unità del Padre, Figlio e Spirito Santo” (LG4) – e attraverso di essa è destinato a trasformare tutte le espressioni della vita umana: un’onda di comunione – potremmo dire – che va dal cuore della Trinità fino ai confini della terra.

 

Con una simile visione è ristabilito il nesso fra ciò che è la Chiesa e le vicende dell’umanità, anche nella loro dimensione più laica e terrena. Accontentarsi di rispondere alla nuova domanda religiosa e concentrarsi unilateralmente sulla dimensione del sacro, significherebbe rinunciare all’ampiezza della missione salvifica della Chiesa e alla sua profonda identità che Bonaventura già nel XIII secolo esprimeva così: “Ecclesia enim mutuo se diligens est – la Chiesa è l’evento dell’amore reciproco[4].

 

L’unità – ovvero la vita trinitaria – come salvezza. “Il popolo messianico – leggiamo nella Lumen gentium … è per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza… Dio… ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di quest’unità salvifica” (n.9).

Tra le parole che oggi per tanti sono prive di un contenuto esistenziale e concreto rischia di essere quella della “salvezza”. Su questo sfondo è indicativo che il Vaticano II abbia stabilito un legame fra salvezza e unità. È nella comunione e nel dono di sé a immagine delle tre divine Persone che la persona umana trova la sua piena realizzazione che inizia qui sulla terra e giunge a compimento in Cielo (cf. GS24).

 

La salvezza sta nell’unità, ovvero nella sempre più piena comunione e reciprocità delle persone con Dio e tra di loro, nella quale si superano le contrapposizioni e le dialettiche negative e si riconciliano, alla luce e in virtù del Mistero trinitario, la libertà e la realizzazione del singolo con le istanze della socialità e della comunità.

Scrive G. Greshake: “Il fine ultimo, dunque, è la ‘unità’, si potrebbe dire anche la ‘trinitarizzazione’ della realtà intera: ciò che Dio è in quanto Dio trinitario possiamo e dobbiamo diventarlo anche noi, cioè una ‘unità di communio’, una unità dalla pluralità, una pluralità in unità[5].

 

Secondo gli insegnamenti del Vaticano II, la Chiesa è l’accadimento di questo, anzi, è sacramento, ovvero segno e strumento di quest’unità salvifica. Visti così, il mistero della Chiesa e il mistero della persona umana sono intimamente legati e allora si capisce che la Chiesa non è un optional o un’arbitraria sovrastruttura: è nella Chiesa come luogo d’unità e come spazio di rapporti trinitari che la persona trova la sua piena realizzazione. In questo senso, già nel IV secolo, Agostino ha potuto parlare della Chiesa come spazio del “mondo riconciliato[6].

È significativo che, quando si presenta la Chiesa così, anche il mondo non credente si fa attento e si sperimenta – come afferma la Gaudium et spes – che “la vocazione ultima dell’uomo effettivamente è una sola, quella divina” (n. 22).

 

La sfida della visibilità: il profilo mariano della Chiesa.Sono convinto che una delle sfide più grandi per la Chiesa di oggi è quella della “visibilità”. Occorre che la Chiesa riesca a farsi conoscere per quella che è. È su questo che si giocano la sua credibilità e il suo cammino nel mondo di oggi. Come del resto aveva chiesto Gesù: “Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (13, 35) e “che siano una cosa sola… affinché il mondo creda” (17, 21). È l’amore reciproco, la partecipazione alla vita trinitaria, a far “vedere” la Trinità e così a suscitare la fede (cf. 1 Gv 1, 1-3).

 

Ne deriva una ricomprensione del rapporto fra la dimensione istituzionale – o meglio: sacramentale-ministeriale– della Chiesa e quella carismatica-esistenziale. È la straordinaria fortuna della Chiesa, che essa non sia un’iniziativa semplicemente umana, ma che trovi la sua origine nell’azione fondante di Cristo che ci precede: attraverso la sua Parola e i sacramenti e il ministero egli genera e rigenera costantemente la Chiesa come il suo Corpo e la rende effettivamente tale.

 

Ma questa realtà oggettiva e indefettibile, deve trovare attuazione soggettiva, cioè esistenziale, nella nostra vita e nei nostri rapporti, se non vogliamo contraddire e occultare con il nostro stile di vita ciò che siamo per grazia di Cristo. Occorre che ciò che la Chiesa è in virtù e per dono di Cristo – presenza e strumento della vita trinitaria – venga da lei accolto e vissuto e diventi di conseguenza realtà visibile e sensibile.

 

È questa una delle caratteristiche di quello che H.U. von Balthasar, e con lui Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno chiamato il profilo mariano della Chiesa. Con il suo duplice “fiat”, al momento dell’annunciazione e sotto la croce, Maria ha reso possibile l’attuarsi dei piani di Dio. “Profilo mariano” vuol dire: l’adesione della fede, esercizio della carità, vita, testimonianza, santità, trasparenza di Dio. Ora, se è vero che il mondo di oggi rifiuta spesso la Chiesa quando si mostra prevalentemente come istituzione, allo stesso tempo sembra avere una sete struggente di quella Chiesa “mariana” che si presenta come Vangelo vissuto, carità in atto, comunità d’amore (Benedetto XVI), ovvero come “casa e scuola della comunione” (Giovanni Paolo II)[7].

 

Fra le conversioni che ciò richiede da parte nostra c’è quella di presentare alle persone non i mezzi, ma il fine della fede cristiana, vale a dire: “l’unità salvifica”, la partecipazione alla vita trinitaria, e solo successivamente i mezzi che sono i sacramenti, la struttura ministeriale della Chiesa ecc.

 

Cristo nel cuore della società: cellule che testimoniano il Risorto. Se la Chiesa è per il mondo, allora è indispensabile che essa sia presente ovunque le persone vivono. Era questo il sogno del card. S. Kim quando, alla fine degli anni ’80, si tenne in Corea il congresso eucaristico internazionale: essere “come una grande ostia nella società”, presenza di amore, fonte di rapporti nuovi, fraterni e comunionali.

 

Concretamente, ciò può avvenire in modo speciale attraverso le “piccole comunità cristiane” o anche attraverso “cellule d’ambiente” che oggi proliferano nel mondo e che sono un vero segno dei tempi: presenza della Chiesa in mezzo alle case degli uomini, là dove essi vivono e operano nel quotidiano[8].

 

Tali cellule di vita ecclesiale sono a mio avviso di estrema importanza per il futuro del cristianesimo, a condizione che esse non si configurino solo come gruppi di preghiera e di approfondimento della Parola di Dio, ma siano luoghi in cui si vivono e di conseguenza si suscitano anche attorno rapporti di fraternità e di reciprocità a partire dal mistero trinitario, e quindi luoghi in cui si sperimenta la presenza viva e unificante di Cristo secondo la sua promessa: “dove sono due o più riuniti nel mio nome là sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Come “piccole Chiese” ovvero “Chiesa in miniatura”, queste cellule sono “sacramento” di Dio per un’umanità rinnovata dal comandamento nuovo quale “legge fondamentale dell’umana perfezione” (cf. GS38).

 

E potremmo continuare, toccando ancora altri punti, come la chiamata, per la Chiesa, di saper essere, in seno alla società, minoranza creativa: sale e lievito. O l’importanza della via del dialogo (cf. Paolo VI, Ecclesiam suam e LG13-16) che porge la verità cristiana sotto forma di un annuncio rispettoso. E ancora l’urgenza di svestirci di privilegi, pretese, potere, per essere presenza d’amore.

 

Parole chiave per la vita della Chiesa: ad intra

 

Sullo sfondo del rapporto Chiesa – mondo, che mi sembra la prospettiva fondamentale, consideriamo più brevemente alcuni aspetti della vita della Chiesa ad intra. Procediamo anche qui secondo parole chiave, più che altro per evocare quanto a tutti noi è ben noto.

 

Chiesa-comunione: dalla piramide al Cenacolo. Come ben sappiamo, il Vaticano II ha segnato il passaggio da una visione che concepiva la Chiesa primariamente come societas perfecta, strutturata a mo’ di piramide, alla comprensione più biblica della Chiesa come mistero di comunione che affonda le sue radici nel mistero della vita delle tre divine Persone (cf. LGcap. 1) e che dà vita a un popolo di persone che, dotate di fondamentale uguaglianza, in virtù del battesimo, sono tutte attivamente coinvolte nell’edificazione della Chiesa (cf. LGcap. 2 e n. 32). È in questo contesto che il ministero gerarchico si viene a configurare come un essenziale e singolare servizio (cf. LGcap. 3).

 

Se vogliamo sintetizzare il tutto in un’icona, viene in rilievo il Cenacolo della Pentecoste: uomini e donne che, fusi in un cuor solo e un’anima sola dallo Spirito, prendono coscienza di essere testimoni del Risorto, visibilità di Lui, “cristiani” appunto, e che come tali si lanciano insieme verso il mondo circostante. In seno a questa realtà il ruolo di Pietro e dei Dodici è ben stagliato, ma vi sono altrettanto presenti Maria e altri testimoni della Risurrezione: ministeri e carismi…

Tale passaggio dalla piramide al Cenacolo ci impegna oggi, nella Chiesa, a tutti i livelli, ed è tutt’altro che già compiuto. Evidenziamo nelle prossime “parole chiave” alcune implicazioni.

 

Co-essenzialità della dimensione carismatica. Nell’anno dedicato allo Spirito Santo, durante la preparazione al Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II, incontrando in Piazza S. Pietro i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, ha parlato degli stupefacenti interventi dello Spirito il quale cambia radicalmente le persone e la storia. E ha proseguito: “Questa è stata l’esperienza indimenticabile del Concilio Ecumenico Vaticano II, durante il quale, sotto la guida del medesimo Spirito, la Chiesa ha riscoperto come costitutiva di se stessa la dimensione carismatica: ‘Lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma ‘distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui’ (1 Cor 12, 11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali… utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa’ (LG 12).

 

Papa Wojtyla ne trae questa significativa conclusione: “L’aspetto istituzionale e quello carismatico sono quasi co-essenziali alla costituzione della Chiesa e concorrono, anche se in modo diverso, alla sua vita, al suo rinnovamento ed alla santificazione del Popolo di Dio[9]Occorrerà trovare in ogni diocesi e in ogni parrocchia sempre più i modi e i luoghi, specialmente nell’ambito dei consigli pastorali, per attuare questa co-essenzialità, nell’interazione fra tutte le forze vive della Chiesa..

 

Circolarità degli stati di vita.In una visione comunionale e trinitaria della Chiesa, i diversi stati di vita non si vedono in chiave di subordinazione, ma nella loro circolarità e quindi nella loro reciproca complementarietà.

Secondo la Christifideles laici, infatti, ciascuna modalità di vivere l’universale vocazione alla santità “ha una sua originale e inconfondibile fisionomia e nello stesso tempo ciascuna di esse si pone in relazione alle altre e al loro servizio. Così lo stato di vita laicale ha nell’indole secolare la sua specificità e realizza un servizio ecclesiale nel testimoniare e nel richiamare, a suo modo, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose il significato che le realtà terrene e temporali hanno nel disegno salvifico di Dio.

 

A sua volta il sacerdozio ministeriale rappresenta la permanente garanzia della presenza sacramentale, nei diversi tempi e luoghi, di Cristo redentore. Lo stato religioso testimonia l’indole escatologica della Chiesa, ossia la sua tensione verso il regno di Dio, che viene prefigurato e in qualche modo anticipato e pregustato dai voti di castità, povertà e obbedienza” (n. 55).

 

Corresponsabilità e non solo collaborazione. In linea con l’insegnamento conciliare, Benedetto XVI ha più volte attirato l’attenzione sul retto modo di concepire il rapporto presbiteri – laici riguardo all’edificazione della Chiesa: “Occorre… migliorare l’impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell’insieme di tutti i membri del Popolo di Dio. Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli ‘collaboratori’ del clero a riconoscerli realmente ‘corresponsabili’ dell’essere e dell’agire della Chiesa[10].

 

Se l’annuncio autorevole e la celebrazione dei sacramenti sono affidati ai ministri ordinati, il compito di dar vita alla Chiesa come evento d’unità coinvolge in effetti tutti i membri della Chiesa senza distinzione (cf. LG12, 32-33; PO9). Diceva un seminarista alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale: “Non avrei il coraggio di consacrare l’Eucaristia, se non avessi imparato a consacrare con l’amore reciproco tutti i rapporti”.

 

Sinodalità e discernimento comunitario: indispensabili espressioni di una Chiesa trinitaria-cenacolare.

Fa parte degli apporti indiscutibili del Concilio Vaticano II aver rimesso in luce quella sinodalità che caratterizza sin dagli esordi l’esperienza cristiana ed ecclesiale. È innegabile tuttavia una certa fatica nella sua attuazione: sovente gli organismi di partecipazione sono piuttosto marginali. Occorrerà approfondire maggiormente il tema della forma sinodale come dimensione essenziale e basilare della vita e della missione della Chiesa. Ciò comporterà di focalizzare le dinamiche e i processi comunicativi e decisionali in ogni diocesi, in ogni parrocchia e anche in ogni “cellula ecclesiale” inclusa la vita presbiterale… In realtà, i luoghi comunionali e sinodali andrebbero sempre più scoperti e vissuti come luoghi di una speciale presenza del Cristo risorto e del suo Spirito e quindi come luoghi di discernimento comunitario”[11].

 

Le esperienze che si fanno là dove un tale dinamismo di partecipazione e di discernimento comunitario è già in atto ed è solidamente poggiato sulla vita della Parola di Dio e sul comune ascolto di Cristo presente in mezzo ai suoi, nonché sul rispetto dei rispettivi ruoli e quindi della grazia specifica del ministero ordinato, evidenziano quali nuove energie può sprigionare un simile modo d’essere Chiesa.

 

Conclusione

 

Pensando a quali potenzialità risiedono in ciascuna delle prospettive evocate, credo che possiamo essere profondamente ottimisti. Siamo insieme spettatori e protagonisti di un’avventura appassionante.

Viene da domandare tuttavia: come si potrà realizzare tutto questo? (cf. Lc 2, 34). Troviamo una risposta a questa domanda nella saggia indicazione che Giovanni Paolo II dette alla Chiesa, quando, all’indomani del 2000, scrisse che “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione” era oggi il compito più urgente per attuare i piani di Dio e rispondere alle attese più profonde dell’umanità. Prima di programmare iniziative concrete a questo scopo – precisò – “occorre promuovere una spiritualità della comunione come principio educativo” e delineò sinteticamente alcuni tratti di una tale spiritualità, per poi costatare: “Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita (n. 43).

 

Tutto parte dalla vita del mistero pasquale quale legge e intrinseca dinamica dei rapporti ecclesiali. Perché si possa realizzare sempre più la comunione, e di conseguenza la missione della Chiesa, si tratta di seguire l’esempio di Gesù che, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso (ekenosen) e si fece carico di tutto ciò che è la nostra realtà umana. È questa, secondo Paolo, la regola della comunità, la via per diventare “unanimi e concordi” (cf. Fil 2): occorre costantemente svuotarci di noi, per “vivere l’altro”, per far spazio in noi per i fratelli e vivere a nostra volta trasferiti nei fratelli.

 



[1] Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi del Portogallo, Fatima, 13 maggio 2010.

[2] J. Ratzinger, Intervista del novembre 2001, riproposta da Radio Vaticana il 20.4.2005. Cf. la Lettera ai cattolici dell’Irlanda, in cui Benedetto XVI si dice convinto che “nella nostra società sempre più secolarizzata, in cui anche noi cristiani sovente troviamo difficile parlare della dimensione trascendente della nostra esistenza, abbiamo bisogno di trovare nuove vie per trasmettere ai giovani la bellezza e la ricchezza dell’amicizia con Gesù Cristo nella comunione della sua Chiesa. Nell’affrontare la presente crisi… vi è bisogno di una nuova visione per ispirare la generazione presente e quelle future a far tesoro del dono della nostra comune fede”(n. 12).

[3] Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi del Portogallo, cit.

[4] Bonaventura, Esamerone I, 4. Secondo K. Hemmerle si tratta della “più audace definizione della Chiesa” che egli conosca (Partire dall’unità, La Trinità come stile di vita e forma di pensiero, Roma 1998, p. 145).

[5] G. Greshake, La fede nel Dio trinitario. Una chiave per comprendere, Queriniana, Brescia 2007, p. 69.

[6] Agostino, Sermones 96, 7, 9, PL 38, 588.

[7] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 43.

[8] Cf. il mio articolo: Cristo nel cuore della società, in Gen’s 39 (2009) 74-77. Ha osservato Benedetto XVI nel suo discorso al Convegno pastorale della diocesi di Roma: “Questo articolarsi delle grandi parrocchie urbane attraverso il moltiplicarsi di piccole comunità permette un respiro missionario più largo, che tiene conto della densità della popolazione, della sua fisionomia sociale e culturale, spesso notevolmente diversificata. Sarebbe importante se questo metodo pastorale trovasse efficace applicazione anche nei luoghi di lavoro, oggi da evangelizzare con una pastorale di ambiente ben pensata, poiché per l’elevata mobilità sociale la popolazione vi trascorre gran parte della giornata” (26 maggio 2009)

[9] Giovanni Paolo II, Veglia della Pentecoste, discorso del 30 maggio 1998. Tre giorni prima, nel suo Messaggio al congresso mondiale dei movimenti, aveva affermato similmente: “Ambedue sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù, perché concorrono insieme a rendere presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo (27 maggio 1998). Nello stesso congresso, l’allora card. Ratzinger, in una sua conversazione su I Movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, non aveva esitato a parlare di questi ultimi come un aspetto della successione apostolica della Chiesa.

[10] Benedetto XVI, Discorso al Convegno pastorale della diocesi di Roma, 26 maggio 2009.

[11] P. Coda – B. Leahy (edd.), Preti in una Chiesa che cambia, Città Nuova, Roma 2010, pp. 126-127.

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