La casa che non c’è

Una corona di spine intorno alle città.Mi torna in mente il ritornello di una canzone che avevo sentito qualche anno fa quando penso alla situazione in cui vivono migliaia di persone ai margini dei nostri maggiori agglomerati urbani. Quella canzone si riferiva alle favelas brasiliane, ma, ahimè, quelle favelas hanno assunto cittadinanza italiana e preso il nome di baracche. In verità non è da oggi. Un’emergenza casa ci fu nei primissimi anni del dopoguerra. Ma lentamente le baraccopoli che si erano formate, anno dopo anno sparirono. Oggi però, frutto dell’immigrazione, sono rispuntate come funghi. Si tratta di alloggi di fortuna, dove la gente vive, anzi sopravvive in maniera disumana e muore anche. Perché non sempre ce la fa, e in certe condizioni basta poco per lasciarci la pelle: una sigaretta che attizza un incendio, una stufa mal funzionante che fa saltare la casa, un tetto pericolante… Le cronache dei nostri giorni sono piene di queste notizie che, purtroppo, sovrastate da altre ancor più gravi, quasi non fanno più notizia. Almeno finché succedono lontano da casa nostra. Salvo poi mandarci in crisi quando scopriamo che il polacco che muore bruciato abitava proprio dietro il nostro giardino, insieme a tanti altri connazionali, in un ricovero che sembra piuttosto la tana di un animale. E noi non ce n’eravamo accorti. Mentre in quell’altro appartamento sopra di noi abitavano dieci bengalesi. E chi li aveva visti? Forse perché siamo figli dell’in- dividualismo e dell’indifferentismo che ci impedisce di vedere al di là delle nostre mura domestiche, oppure anche quando arriviamo a vedere non riusciamo a guardare. Ma che noi ce ne rendiamo conto o no, sono decine di migliaia le persone che un alloggio dignitoso non ce l’hanno e le nostre città, più sono grandi, più sono piene di disperati che non hanno una porta a cui bussare. Il Po, l’Adige, Il Tevere, l’Aniene, l’Arno: è lungo le loro rive che tanti si creano un rifugio. Tetti di lamiere o di cartone che siano, camuffati tra le foglie degli alberi, che rimangono lì finché non succede la tragedia. E allora vengono scoperti. Purtroppo per risolvere questo problema nessuno ha la bacchetta magica o la soluzione in tasca. E certo neanche noi. Ma qualche considerazione vogliamo farla, perché, forse, qualcosa ancora si può pensare. Intanto un primo dato di fatto. Chi sono questi… residenti della strada o abitanti di fortuna che dir si voglia? Sicuramente in gran numero sono persone immigrate, ma non solo. Sono persone che soffrono di disturbi psichici, ad esempio. Quanti, uomini e donne, che parlano da soli, con un interlocutore immaginario che si fa compagno di viaggio al posto di un vero, reale amico. E poi ci sono tossicodipendenti, alcolizzati, ex detenuti, quelli che una famiglia o un lavoro non ce l’hanno più. Diverse le cause, uguali gli effetti: disagio, solitudine, freddo dentro e d’inverno anche fuori, emarginazione, voglia di farla finita. In quest’universo di disperati un discorso a parte va fatto per gli immigrati, che, come dicevamo, sono la fetta più larga di questa popolazione. Una situazione che, di fatto, è per i più un passaggio obbligato, anche se l’attuale legge sull’immigrazione prevede il rilascio del permesso di soggiorno solo a chi ha un contratto di lavoro e dunque d’affitto. Nella realtà, chi arriva alla ricerca di una sistemazione lavorativa, spesso una casa dove abitare non ce l’ha, sia perché non può permettersi di pagarla o perché non sempre la gente è disposta ad affittare ad immigrati. Per loro, infatti, le case costano di più. E dunque, almeno all’inizio, non resta che accontentarsi di soluzioni di fortuna, in attesa che le cose cambino. I dati nazionali del rapporto Censis 2006 evidenziano che l’11,8 per cento degli immigrati vive in una casa di proprietà. Il 72 per cento sta in affitto, il 16,1 per cento vive in condizioni abitative precarie . Del 72 per cento di affittuari, però, il 20 per cento si trova in condizioni di sovraffollamento. Vale a dire che 900 mila persone vivono in maniera disagiata. E così veniamo a sapere di tutti gli abusi che tanti immigrati subiscono. L’inchiesta pubblicata di recente su Repubblica, ha portato alla luce non solo il degrado in cui vivono queste persone, ammassate nella sporcizia in locali privi di servizi igienici, l’uno sull’altro, ma anche la speculazione di tanti proprietari che affittano posti-cusci- no ad immigrati che fanno a turno a dormire su un materasso o su un divano. Senza casa e senza diritti – riferisce il quotidiano -. Senegalesi, bengalesi, nigeriani, pachistani che a migliaia si nascondono nelle pieghe della città. Disposti a spendere anche un quarto della loro paga non per avere una stanza o un letto, ma il diritto di dormire. Anche semplicemente in terra. E non per la strada. Spendendo 150, 200 euro al mese. Una denuncia che ha fatto scattare un piano di controlli a tappeto in tutta la città di Roma, cui l’inchiesta si riferisce. Qui non si tratta solo di tutela dell’ordine pubblico, qui c’è in ballo il rispetto della dignità umana, ha affermato il prefetto della capitale, Achille Serra, che ha messo in moto un’offensiva volta a contrastare l’ignobile speculazione ai danni degli immigrati e che mette a repentaglio la sicurezza di tutti. Perché se in un bilocale di cinquanta metri quadri senza riscaldamento né gas ci vivono in venti, a rischiare non è solo chi abita lì dentro – continua -. Se una stufa va a fuoco, se una bombola esplode, salta tutto l’edificio . E poi un invito: È indispensabile la collaborazione dei cittadini. Ai quali mi appello: appena vi accorgete che nel vostro stabile c’è un via vai anomalo, segnalatelo al commissariato di zona, fate anche una telefonata anonima al 113 o al 112. E magari anche a qualcun altro perché la soluzione del problema non sia un problema ancor più grave, quello di finire sulla strada. Le cose non vanno molto meglio in altre città d’Italia. A Milano il sindaco Letizia Moratti ha chiesto al ministero della solidarietà sociale risorse straordinarie per la costruzione di nuovi alloggi per le fasce più deboli che risentono pesantemente dell’emergenza casa. Nel capoluogo lombardo un posto letto sfiora i 400 euro al mese e un bilocale di 50 metri quadri può andare dagli 800 euro in periferia ai 1400 al centro. Alcuni prendono una casa anche con un affitto elevato per chieder il ricongiungimento familiare – afferma Leo Spinelli dello sportello casa della Cisl-Sicet – per poi accorgersi con il passare dei mesi di non essere in grado di far fronte al canone da pagare. Sappiamo bene che non è un argomento facile, anzi l’esperienza dimostra quanto sia arduo individuare le giuste e sostenibili soluzioni. Ma non parlarne è peggio. Si rischia così di eludere il tema, di far finta di non vederlo e di renderlo sempre più complesso e difficile. Potremmo continuare il giro d’Italia a individuare questi luoghi dell’emarginazione. Perché uguale discorso si potrebbe fare a Torino come a Genova, a Napoli come a Firenze, a Palermo come a Bologna, anche se con proporzioni diverse. Un mal comune che non è mezzo gaudio. Tutt’altro. Città dove comunque, insieme al disagio, cresce la consapevolezza e il conseguente impegno di dare una risposta concreta, se non proprio una soluzione. Come avviene da qualche anno a Bergamo dove opera Casa amica, un’associazione di volontariato costituita nel 1993, promossa dalla Consulta provinciale dell’immigrazione e che ha come soci fondatori la Provincia, diversi comuni, vari enti ed associazioni (www.casaamica. org – tel. 035403525). Numerosi i progetti conclusi o in cantiere che hanno uno scopo ben preciso: dare un tetto a chi non ce l’ha, con l’industriosità tipica di queste terre. In pratica è l’associazione che fa da tramite per cercare o garantire sugli affitti oppure mettere a disposizione, con regole precise, il proprio parco immobiliare. Una sfida che ha dato casa a centinaia di persone e di famiglie che non ce l’avevano e che, forse, difficilmente l’avrebbero avuta. Non tutto quello che sarebbe necessario si arriva a fare, ma tanto di quello che non si fa potrebbe essere fatto.

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