La bella favola di Schumann

“Il Paradiso e la Peri” è un oratorio profano: una musica per persone serene, tra innocenza, colpa, espiazione e redenzione

L’Oriente e il suo esotismo hanno sempre attirato gli europei. Nel clima romantico poi la passione si è estesa, basti guardare le odalische di Delacroix o le polinesiane di Gauguin. In musica, a parte le “turcherie” spassose di Mozart e Rossini, anche Wagner ipotizzava un’opera di soggetto persiano. Non la compose, ma ci pensò invece Robert Schumann nel 1841-43.

Si tratta della favola Il Paradiso e la Peri, una “musica per persone serene”, quindi una volta tanto un lieto fine e per di più da parte di un tipo come Schumann, la cui fantasia era portata ad immaginazioni introverse non sempre rassicuranti. Questo “oratorio profano “, tratto da un racconto in versi del poeta Thomas Moore, e destinato alla sala da concerto, racconta del mito iranico di Peri, creatura dell’aria espulsa dal cielo per una colpa, che deve espiare attraverso tre prove ed alla fine, grazie alle lacrime di un fanciullo, ritrova la redenzione. Innocenza, colpa, espiazione, redenzione. Temi usuali nella letteratura anche europea e nella religione – Schumann era luterano – e molto sentiti dal musicista, che compose con grande passione emotiva l’oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra.

Il risultato è un lavoro composito, capace di effusioni liriche nelle voci, di cori appassionati, di una orchestrazione che passa dal leggero al tempestoso al marziale, e chiude nella contemplazione, in una pace eterea che prelude a certo Wagner, ma è di lui più purificata e semplice. L’anelito umano alla purezza, alla limpidezza dell’anima, tipico di Schumann e del romanticismo ben oltre le suggestioni maligne, è delineato dai colori cangianti dell’orchestra e dall’effusione di un canto drammatico-contemplativo.

È un peccato che il compositore non si sia dedicato all’opera, ma forse la sua ipersensibilità non avrebbe retto alla tensione che ciò comporta. A noi poi non interessano troppo le commistioni religiose cristiano-zoroastriane-islamiche del libretto scritto da Schumann, perché quel che il musicista vuol dire è la necessità di passare attraverso la “prova” per giungere alla luce definitiva.

All’Accademia di Santa Cecilia in Roma, Daniele Gatti ha offerto una direzione accurata e senza eccessi gestuali inutili, bella per tatto, approccio profondo alla musica e al testo, cura dei dettagli nelle sezioni orchestrali: gli archi flessuosi anche nei pizzicati, gli ottoni pregni di sapori romantici. Affiatata la compagnia di canto, voci curate e precise (da noi ce le sogniamo), dal bel timbro, in particolare il soprano di colore americano, la luminosa, svettante Angel Blue. Sempre impeccabile il coro. Pubblico sorpreso da una musica da noi purtroppo poco eseguita, per mancanza di voci nostrane adatte o per scarsa sensibilità dei programmatori? Applausi sentiti e cordiali.

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