La battaglia per il potere mondiale

Cosa c’è dietro i recenti scontri legali tra Google e UE, tra Apple e Fbi? Perché le corporation si propongono come le paladine dei diritti dei naviganti in Rete? Il braccio di ferro tra diritti civili e business

Le pratiche di Google «sono contrarie al diritto europeo», così la commissaria Ue per la concorrenza Margrethe Vestager. Tradotto in parole povere: Google impone a chi istalla il suo sistema operativo Android su tablet e cellulari, di preistallare alcune delle sue applicazioni (Google Maps, Gmail, Chrome, Search), riducendo così la libera scelta dei consumatori, soprattutto nel settore della ricerca generale su Internet. E siccome qualcosa come l’80% dei dispositivi intelligenti utilizzati nel mondo funziona con Android, è facile rendersi conto dell’entità del problema. Da qui la minaccia Ue di imporre al gigante informatico statunitense una multa di 70 e più miliardi di euro (per il 2015).

 

Lo scontro ricorda quello, di molti anni fa, relativo a Explorer, il browser di Microsoft preistallato insieme a Windows. Ma ricorda anche, più recentemente, lo scontro tra Apple e l’Fbi che chiedeva alla casa della mela di svelare i contenuti criptati dell’iphone di un assassino. Dopo il rifiuto di Apple, sarebbe stato interessante vedere come sarebbe andata a finire la battaglia legale, se l’Fbi non fosse riuscita per conto suo a crackare il dispositivo (questo almeno è quello che ci raccontano).

 

Cosa rispondono gli accusati? Google sostiene che «Android è un bene per la concorrenza e per i consumatori». Apple, a sua volta, rifiuta di aderire alla richiesta dell’Fbi perché in questo modo «verrebbe compromessa completamente la sicurezza di centinaia di milioni di utenti onesti». Insomma, sono le corporation ormai che si ergono a paladine dei consumatori, perché solo loro ritengono di sapere cosa è bene per i miliardi di individui che utilizzano i loro servizi in Rete. A parte il dibattito in corso su questi casi specifici – con i loro nodi tecnici, legali e di business –, il vero problema di fondo è quindi un altro.

 

Chi decide cosa è giusto o sbagliato nel mondo di oggi? Le leggi votate dai Parlamenti o gli amministratori delegati? E sulla base di quali principi: il bene comune dei cittadini o gli interessi di una azienda privata? Una risposta scontata potrebbe essere: le leggi degli Stati sovrani con l’aggiunta, visto che il mondo è globalizzato, degli accordi e della legislazione internazionale. Mettendo al primo posto la difesa dei cittadini. Eppure non è più così. O almeno sarà sempre più difficile, per chiunque, difendersi dagli interessi (globali) della aziende di affari.

 

Facciamo un esempio: negli Usa la voracità delle compagnie minerarie, magistralmente descritta da John Grisham nel suo legal thriller I Segreti di Gray Mountain, per sfruttare i giacimenti di carbone all’interno delle montagne non scava più, come in passato, lunghe gallerie nel sottosuolo, con costi, risorse e tempi enormi. Ora comincia dalla punta (strip mining): con scavi ed esplosioni sventra la montagna per strati successivi, fino a mettere a cielo aperto il giacimento di carbone che può quindi essere sfruttato facilmente e a basso costo. Tutte le migliaia di tonnellate di montagna sventrata vengono semplicemente gettate nelle vallate e nei canaloni laterali. Si può immaginare l’inquinamento e la distruzione per sempre dell’habitat umano e animale. Oltre alla semplice fine della bellezza delle montagne, sostituite da lande piatte e inospitali.

 

Se un privato prova ad opporsi, ci pensano i grandi studi legali – forti di centinaia di avvocati specializzati in cavilli legali, ricorsi, perdite di tempo, intimidazioni più o meno velate –, a rendere impossibile o interminabile l’attesa e la speranza di una sentenza favorevole.

 

Oggi, però, le grandi multinazionali mettono paura anche ai singoli Stati. E non solo con gli studi legali. La potenza del denaro permette di utilizzare strumenti assai sofisticati di convincimento: campagne mediatiche ben orchestrate, giornalisti ed esperti collusi, data mining sui social network per conoscere e influenzare le opinioni dei naviganti, corruzione di funzionari pubblici (e di intere maggioranze parlamentari) col denaro messo sul piatto in cambio della disponibilità a chiudere un occhio, minacce di escludere lo Stato recalcitrante dai grandi flussi di investimenti e dalla disponibilità dei servizi Internet.

 

Solo unioni politico-economiche di Stati nazionali, come la Ue, riescono, finora, a resistere ed imporre multe salate, in casi eccezionali, ai grandi gruppi come Amazon, Google, Facebook o alle compagnie petrolifere o minerarie. Ma anche qui qualcosa sta cambiando: la famosa proposta del Ttip, il trattato di libero scambio tra Usa e Ue in corso di discussione da alcuni anni, potrebbe permettere ad una multinazionale di chiedere i danni ad uno Stato sovrano perché, con le sue decisioni, ha violato i suoi interessi commerciali. Quindi noi cittadini pagheremmo perché abbiamo dato fastidio agli affari di qualcuno che magari vive e opera in qualche lontano paradiso fiscale.

 

Ma se neanche le leggi nazionali o gli accordi internazionali bastano più a fermare l’appetito senza fine dei più forti, chi difenderà i deboli?

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