JOVANOTTI & giovanotti: i post-cantautori

Da una parte i padri fondatori e i sopravvissuti della prima guardia, vale a dire i De Gregori, i Dalla e i Guccini, il Vasco, Conte e Fossati. Dall’altra le stelline più recenti come i Jovanotti, i Bersani, gli Antonacci, i Pezzali, i Ligabue. Fino a qualche mese fa il confronto era tra queste due generazioni cantautorali, laddove la seconda era indiscutibilmente figlia della prima. Da qualche mese però ne sta emergendo una terza, per molti versi figlia della seconda e della prima insieme. È quella dei Caraturo e dei Diego Mancino, dei Cremonini, degli Ivan Segreto, dei Caparezza, dei Cristicchi e di molti altri giovani frequentatori delle playlist del nuovo Millennio. Da un lato sembrerebbero aver preso a modello le lezioni alte dei vari De André, Paoli e Battisti, dall’altro il disincanto e l’essenzialità antiretorica dei secondi. Ognuno a modo suo, ovviamente, oltre che con esiti qualitativi assai diversi. Oltre al talento, li accomuna una gavetta meno lunga del solito, un’indubbia capacità di galleggiamento tra i marosi della crisi in corso, e la furbizia. Un’astuzia in grado di dribblare certe contraddizioni (tra l’essere e l’apparire, tra il dire e il fare…) che tormentava e ancora tormenta molti dei loro colleghi più blasonati. Stiamo ovviamente semplificando e generalizzando troppo, ma non c’è dubbio che il mestiere di cantautore stia vivendo una trasformazione epocale, nell’essenza molto più che nella forma. Superati con la stessa disinvoltura dei loro coetanei gli steccati ideologici che zavorravano le generazioni precedenti, i menestrelli del nuovo millennio colpiscono per lo più fulmineamente, fregandosene delle incoerenze e delle contraddizioni (loro, e del mondo circostante) e dando comunque l’impressione d’essere più attrezzati a convivere con le inquietudini del presente di quanto non lo fossero i loro fratelli maggiori. E cantano una realtà compressa in un eterno attimo fuggente, dove è possibile cambiare idea con la stessa frequenza delle mutande, dove si riesce allo stesso tempo a tranciare giudizi inesorabili su ogni cosa, pur sbandierando le alabarde del relativismo più assoluto. Dove si può ad un tempo prender le distanze dai guasti di un Sistema perverso, senza farsi scrupolo di adeguarsi alle ipocrisie di quelle stesse regole, pur di raccattarne i frutti. Questa genia di postcantautori canta di tutto e di niente, spesso con grande mestiere e guizzi quasi geniali. Una genialità molto pragmatica però, schiava delle convenzioni, del ciò che le mode dichiarano di volta in volta essere in o out. Eppure, come dargli contro? In questo impero del revisionismo così povero di mecenati e così saturo di squali e d’opportunisti… In un mondo dove soprattutto le parole hanno perso peso e significato, chi con le parole lavora è costretto ad adeguarsi come può. E così eccoci alle prese con valanghe di belle canzoncine senza nerbo, capaci di farci sorridere o sospirare sul momento, ma incapaci, tranne eccezioni rarissime, di toccarci nel profondo, e di resistere all’usura del Tempo. Simone Cristicchi – chiedo scusa se stavolta lo spazio ci costringe a parlare solo di lui – è un degno paradigma di quanto appena espresso. Il suo album di debutto Fabbricante di canzoni (e mai titolo fu più azzeccato…), è arrivato dopo la furbissima e tormentosa Vorrei cantare come Biagio. È un disco formalmente ben costruito, arguto in talune rime, un po’ facilone in altre. Ha il suo maggior pregio nella modernità dei suoni e nell'(auto) ironia che trasuda dai solchi. Fotografa il quotidiano che ognuno ha sotto gli occhi, ma lo fa per lo più enunciando luoghi comuni, quasi mai sforzandosi di raccontarli attraverso dettagli insoliti, prospettive originali o sensibilità meno convenzionali. Certo queste non sono caratteristiche obbligate di una buona canzone, ma aiuterebbero non poco questi giovanotti che, non dimentichiamolo, hanno avuto la scalogna di nascere in un’epoca dove tutto è già stato detto, scritto, e cantato. CD NOVITÀ BARBRA STREISAND GUILTY PLEASURES (Sony) Pop per adulti stagionati, buono per sottofondi chicchierosi o traversate autostradali. Produzione impeccabile e patinatissima per la signora statunitense che ritrova il compare di un tempo Barry Gibb: con l’obiettivo fin troppo evidente di bissare il successo dello storico Guily di venticinque anni fa. SUPERGRASS ROAD TO ROUEN (Emi) La band britannica non inventa nulla, ma si destreggia bene tra pop radiofonico, lampi di progressive, e rock ruspante. Se vi piace il genere, non vi deluderà. Ma che il dischetto duri solo poco più di mezz’ora, mi pare una furbata assai discutibile.

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