Jammu and Kashmir: sospeso lo Statuto Speciale

Con una decisione unilaterale il governo Modi modifica lo statuto speciale per la regione del Nord India, creando un clima di incertezza fra le minoranze religiose e aprendo a nuove potenziali tensioni fra indù e musulmani nella regione da decenni martoriata da un contenzioso senza fine.

Jammu and Kashmir è da decenni una zona che rappresenta un contenzioso complesso fra India e Pakistan, ma con pericolosi risvolti anche socio-religiosi. La zona, infatti, situata all’estremo Nord del sub-continente indiano è sempre stata al centro delle tensioni dei due Paesi, che non hanno mai permesso di renderla una questione internazionale, anche perché preziosa potenziale agenda nazionalista quando i rispetti governi si sono trovati in stato di debolezza.

Ricorrere alla questione del Kashmir significava mobilitare l’opinione pubblica nazionale, sia per India che per Pakistan, e l’effetto di ricompattare il Paese era giocoforza e naturale. In questo modo per decenni le due amministrazioni politiche hanno, di fatto, giocato sulla popolazione locale creando tensioni, non solo politiche ma anche sociali, con un crescente terrorismo sponsorizzato abilmente da una parte e dall’altra e con uso attento e subdolo della questione religiosa. Il Kashmir, infatti, è lo stato dell’India dove i musulmani sono più presenti e, in qualche modo, toccare questo angolo del Paese significa rinvigorire le tensioni socio-religiose fra indù e musulmani.

In questo quadro sempre in bilico fra una guerra potenzialmente atomica – perché entrambi i Paesi sono da tempo nuclearizzati – ed una costante crescente tensione fra seguaci delle due religioni con ondate di terrorismo che si sono susseguite e assopite con impressionante regolarità, il governo di Delhi ha in questi giorni presentato una legge per riorganizzare amministrativamente il Kashmir – Jammu and Kashmir Reorganisation Bill, 2019 – che prevede la divisione dello stato in due Union Territories – Territori dell’Unione, il Kashmir ed il Ladhak. Una sola la differenza fra le due nuove entità amministrative. Il Ladakh non avrà un parlamento locale, mentre il Kashmir conserva il suo, ma con poteri ed autonomia molto ridotti rispetto all’ordinamento previsto dalla legge in vigore fino ad oggi.

La questione è molto complessa. Cerchiamo di spiegarla il più semplicemente possibile. Jammu and Kashmir da decenni godono di quello che è definito ‘statuto speciale’ secondo l’articolo 370 della Costituzione Indiana. Si tratta di un provvedimento provvisorio che cessa di essere operativo nel caso il Presidente dell’India promulghi una notifica pubblica in tal senso. Tuttavia, l’Assemblea Costituente del Jammu and Kashmir deve, prima inviare una raccomandazione per la promozione del decreto presidenziale. Secondo l’articolo 370, infatti, questo stato dell’India gode di una sua Carta Costituzionale e le leggi approvate dal governo centrale di Delhi non hanno validità, se il governo locale non dà parere affermativo alla loro applicabilità sul suo territorio. Il Presidente, quindi, può revocare questi diritti di cui gode quell’angolo estremo dell’India, ma solo se il suo governo locale appoggia tale decisione presidenziale.

Il governo Modi ha, di fatto, scavalcato il governo locale. Infatti, attualmente Jammu and Kashmir sono commissariati e, quindi, sotto il controllo diretto del Presidente dell’India. Il governo, ha quindi, presentato la sua proposta dando per scontato che il Presidente, come autorità attuale dello stato, ha approvato tale mossa. Un colpo di mano astuto e, in certo senso, anche improvviso come sono molte delle iniziative di questa gestione Modi. Basti pensare alla famosa demonetizzazione, un provvedimento con il quale, senza alcun preavviso il governo attuale, nel mandato precedente, aveva dichiarato senza più validità le banconote di valore superiore alle 100 rupie, gettando l’economia del Paese in un periodo di totale confusione.

Negli ultimi anni, il BJP ha lanciato un processo rampante di nazionalismo Hindutva (l’India è la nazione degli indù) in tutto lo stato di Jammu and Kashmir, dado vita ad un braccio di ferro molto deciso. Il BJP ha lanciato una campagna militare contro i tentativi di separatismo dei kashmiri ed ha di fatto commissariato l’amministrazione locale, passata direttamente sotto la giurisdizione del Presidente della Repubblica Indiana. La mossa compiuta in questi giorni è un segno chiaro dell’intenzione del governo Modi di dividere lo stato in due parti, diminuendone l’importanza sul territorio nazionale e dando il titolo di Union Territories ad entrambe le nuove unità amministrative.

Inoltre, il BJP ha compiuto questo passo in maniera unilaterale senza alcuna consultazione e, in tal modo, ha incrinato la validità della democrazia e del sistema parlamentare. Il BJP ed i suoi leader attuali non hanno mai nascosto che lo statuto speciale di cui godevano questi due territori del Nord India non era un aiuto alla loro piena integrazione nazionale, ma, piuttosto, un ostacolo. Era evidente sia per Modi che per Shah, il nuovo Ministro dell’Interno, grande avvocato e protagonista del fondamentalismo indù, che era necessario intervenire per riallineare la questione su binari di centralizzazione totale. E questo è il senso di quanto avvenuto in questi giorni.

Nell’intero processo, non è avvenuta alcuna consultazione a livello di popolazione locale in Kashmir e, tanto meno, si è potuto esprimere il governo locale, in stato di commissariamento. La decisione di presentare un disegno di legge per il riordinamento dell’amministrazione è stata, quindi, di fatto presa unilateralmente da Delhi ed è destinata a creare non poche tensioni sociali e non solo. Essendo, infatti, come detto, l’intera zona a maggioranza musulmana già, sia a livello di opposizione che di altre minoranze, si comincia a temere per il resto del Paese e per le comunità minoritarie, in particolare musulmani e cristiani, che professano una fede che non fa parte delle religioni del santana dharma.

Alcuni commenti a caldo tradiscono un vero timore che si tratti di un primo passo per un progressivo processo di induizzazione del Paese che metterebbe a repentaglio il diritto dei cittadini in quanto tali, al di là della religione che professano.

 

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